Il fungo alla fine del mondo di Anna Lowenhaupt Tsing
Già un classico dell’ecologia politica, il libro di Anna Lowenhaupt Tsing ci ricorda come la vita può resistere solo grazie alla collaborazione
Ci sono voluti sette anni di ricerche sul campo, dal 2004 al 2011, per far si che Anna Lowenhaupt Tsing scrivesse “Il fungo alla fine del mondo, la possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo”, un libro che per la sua capacità di fondere storytelling e ricerca è già tra i classici dell’ecologia politica.
Pubblicato nel 2015 dalla Princeton University Press, il Fungo alla fine del mondo è stato portato in Italia da Keller editore che, grazie alla traduzione italiana di Gabriella Tonoli, ci regala la possibilità di seguire Anna Lowenhaupt Tsing nella sua esplorazione delle storie che ruotano intorno alla raccolta e al commercio del fungo Matsutake, uno dei funghi più preziosi e ricercati dell’Asia.
Il Fungo alla fine del mondo rompe i confini tra scienza, antropologia e racconto letterario con una struttura a “patch”, frammenti discontinui che si relazionano a vicenda, per rispecchiare la complessità, la casualità e la precarietà della società nella crisi climatica in cui viviamo.
Il Fungo alla fine del mondo è la storia di come i rapporti “tra umani” e “tra umani e non umani” possono essere la chiave per la sopravvivenza in tempi di crisi ricordandoci che il futuro è un campo aperto di possibilità.
Il fungo alla fine del mondo e l’autunno dell’umanità
Ti sei mai fermata per chiederti quale aroma ha l’autunno? Qual è il suo odore e sapore? In un certo senso Anna Lowenhaupt Tsing è da qui che inizia a raccontarci la storia del fungo alla fine del mondo.
La risposta a questa domanda è molto soggettiva e dipende al punto di vista da cui la guardiamo. L’autunno è infatti spesso associato alla decadenza, alla malinconia e alla transizione verso giornate più buie. Quando ci riferiamo all’autunno pensando alle nostre vite l’immagine è quella della precarietà e della possibilità di cadere da un momento all’altro come le foglie (che poi è come descrisse Ungaretti la precarietà della vita dei soldati durante la prima guerra mondiale). Eppure la risposta a questa domanda è fatta di “incontri” e “indeterminazioni”.
Ad esempio io ho un rapporto un po particolare con l’autunno. Essendo nato e cresciuto a Roma per me l’autunno è sinonimo di “ottobrata romana”, un periodo di festa o gite fuori porta grazie a una seconda estate che arriva con il tepore delle tinte rossastre. Crescendo però facciamo incontri e scelte che come nel videogioco Life Is Strange si rilevano molto importanti e come tali non possiamo programmare, in un certo senso dipendono dalla casualità.
Quando mi sono trasferito al “temibile nord”, gli odori dell’autunno sono cambiati e non sono più quelli dei parchi romani. Certo non sto parlando di Milano ma le diverse incursioni nel resto della Lombardia hanno dato un sapore diverso all’autunno che ora è fatto da incontri fortuiti con l’aria fredda delle montagne, i boschi o gli animali vivono i paesaggi del varesotto.
Cambiando ancora punto di vista, l’autunno è la stagione in cui il fungo matsutake prolifera grazie anche alle “perturbazioni” dell’essere umano e agli “incontri indeterminati” di questo fungo. L’aroma dell’autunno dei matsutake ad esempio cambia in base all’albero sotto cui cresce, alle interazioni che le attività umane hanno con i territori e del naso che incontra.
Lo stesso odore di un matsutake può infatti essere prelibato per un giapponese, mentre per uno statunitense è più simile all’odore del fango. La relatività dell’odore però si costruisce grazie alla storia delle singole culture, alle scelte che portarono a un disboscamento che in Giappone permise per la prima volta di trovarli e renderli cosi ricercati ma anche al motivo del perché una singola persona si mette alla ricerca dei matsutake.
In quella che è una storia globale che parla dei nostri modelli economici e del capitalismo, la singola biografia ha un protagonismo assoluto nella storia della raccolta dei funghi matsutake. L’aroma dell’autunno e la stessa storia dell’umanità sono quindi il risultato dell’indeterminazione delle variabili con cui natura e cultura si incontrano e fondono. Per Anna Lowenhaupt Tsing è cosi impossibile distinguere tra odori e la storia dell’indeterminazione che si evolve nel tempo.
Anna Lowenhaupt Tsing è docente di antropologia alla University of California, a Santa Cruz, e alla Aarhus University in Danimarca, dove co-dirige la Aarhus University Research on the Antropocene (AURA). Per questo unisce diversi saperi scientifici, l’antropologia e lo storytelling per accompagnarci nelle storie della raccolta e vendita del fungo matsutake tra gli Stati Uniti e il Giappone, ma anche delle storie delle singole persone coinvolte in una di quelle che sembra una “filiera produttiva” atipica per il capitalismo.
La storia del fungo matsutake è peculiare. Si dice che le prime forme di vita a nascere dopo la bomba atomica su Hiroshima del 1945 siano stati proprio dei funghi matsutake. Se Il fungo alla fine del mondo è già un classico dell’ecologia politica, ciò non ci sorprende perché è un autrice già importante nel pensiero ecologico con libri come Friction (2004) e In the Realm of the Diamond Queen (1993), però in questo caso Anna Lowenhaupt Tsing ci mostra come da un fungo matsutake possiamo offrire esempi di modi di vita alternativi basati su forme di collaborazione e convivenza pacifica tra specie in un epoca di disastri.
La domanda fondamentale è proprio questa: cosa riuscirà a sopravvivere tra le rovine di una crisi che ci ostiniamo a portare avanti?
Il metodo “Anna Lowenhaupt Tsing” per raccontare il fungo alla fine del mondo
Il fungo alla fine del mondo non è un’analisi verticale del mondo dei funghi o delle storie dei raccoglitori, cerca anzi di assemblare queste storie in quella più ampia dell’economia mondo. Per questo c’è chi, storcendo il naso, lo ha definito “un saggio di critica marxista applicato alla gestione forestale”.
Anna Lowenhaupt Tsing, forse ispirata anche da Ursula K Le Guin, ha volutamente scelto una struttura ad “assemblaggio aperto” ossia una sequenza di capitoli brevi organizzati in una logica “non lineare”. Una scelta che porta il lettore a esplorare e vagare nell’argomento e nelle storie che incontrano i funghi matsutake. L’intenzione di Anna Lowenhaupt Tsing è che i capitoli del libro “apparissero come quelle manciate di funghi che spuntano dopo la pioggia: un pingue bottino; una tentazione da esplorare; un di più”. Qualcuno può trovarlo snervante ma per chi porta pazienza e si mette in ascolto riuscirà a vedere l’immagine della frammentarietà del mondo in cui viviamo e che l’assemblaggio è possibile anche tra frammenti che non combaciano tra di loro come in un puzzle.
Non è un opera di narrativa ma fonde elementi di storytelling e critica saggistica per stimolare un pensiero utile all’orientamento delle macerie dell’oggi tenendo conto di quanto possiamo imparare dal “mondo vegetale”.
Nel fare questo Anna Lowenhaupt Tsing propone una “terza natura” che è protagonista in Il fungo alla fine del mondo. Per capire questa analogia dobbiamo fare riferimetno a una “prima natura” che consiste nelle relazioni ecologiche che comprendono gli esseri umani e a una seconda natura che consiste nelle trasformazioni capitaliste dell’ambiente e dei territori. La “terza natura” di cui parla Anna Lowenhaupt Tsing è tutto ciò che riesce a vivere “malgrado il capitalismo” abbandonando tutti quegli assunti che concepiscono il futuro come un unico percorso in avanti. Usando le stesse parole di Anna Lowenhaupt Tsing in Il fungo alla fine del mondo:
“Come particelle virtuali in un campo quantico, diversi futuri entrano ed escono dall’ambito del possibile; la terza natura emerge all’interno di tale polifonia temporale. Le storie sul progresso ci hanno resi ciechi. Per conoscere il mondo spogliato di simili narrazioni, questo libro tratteggia assemblaggi aperti di modi di vivere intrecciati tra loro, che si fondono coordinandosi con ritmi temporali molto diversi. La forma del mio esperimento e la mia tesi si seguono a vicenda”
Dal conflitto alla collaborazione tra natura ed esseri umani
Il punto centrale de Il fungo alla fine del mondo è che la divisione tra natura e uomo della razionalità moderna e tecnica iniziata con l’Illuminismo, ancora oggi molto viva, ha gettato le basi per il disastro. Così come evidenziato anche dalla Scuola di Francoforte, la dominazione della natura è centrale nella società occidentale e la natura stessa viene vista come un soggetto passivo da sfruttare secondo le intenzioni morali dell’umanità in grado di controllarla.
Il dominio sulla natura però ha provocato un pandemonio tale che non a oggi sappiamo se possa proseguire la vita sul nostro pianeta. Si tratta degli innumerevoli paradossi della società nella crisi climatica: sappiamo come estrarre risorse dalla terra ma acceleriamo i cambiamenti climatici o provochiamo l’estinzione di alcune specie, oppure conosciamo e comprendiamo l’atomo ma con questa abbiamo provocato la distruzione di Hiroshima (come ci racconta la storia di Oppenheimer).
Se però nessun luogo al mondo è rimasto indenne al mito del progresso e all’economia capitalistica che si è affermata in varie forme, le storie dei matsutake ci offrono un’alternativa che sembra ricordarci quelle favole in cui le attività vitali di tutti gli esseri viventi erano protagoniste.
Come ci ricorda Anna Lowenhaupt Tsing in Il fungo alla fine del mondo “Fabbricare mondi non è riservato agli umani” e dobbiamo guardare ai modi di “fare mondo e di esistenza” al di là dell’umano per avere una visione complessiva e non “autocentrata”.
Anna Lowenhaupt Tsing racconta l’incontro con la popolazione vietnamita che nella foresta industriale dell’Oregon vanno alla ricerca dei matsutake per il commercio con il Giappone. L’Oregon, già nel 1930, era la regione dove prosperava la produzione del legname negli Stati Uniti ma a partire dal 1989, grazie anche alle foreste disboscate, ha iniziato a prendere piede il commercio di questi funghi.
I matsutake sono infatti il risultato di una modellazione “multi-specie” attraverso cui Anna Lowenhaupt Tsing ci ricorda che “nessun organismo può diventare se stesso senza l’assistenza di altre specie”. Il matsutake allo stesso tempo si nutre delle perturbazioni dell’essere umano ma rimane indifferente all’economia industriale, contribuendo anche alla crescita della vegetazione in terreni ostili.
Il fungo alla fine del mondo come storia di assemblaggi
Il matsutake è di per sé anticapitalista perchè non può essere coltivato e non si presta al consumo di massa. Anna Lowenhaupt Tsing per spiegare questa dinamica propone il concetto di assemblaggio inteso come “modi di vivere e modi di non vivere che si incontrano”. Quando inizio l’industrializzazione dell’Oregon tra il 1908 e il 1909 attraverso la costruzione della linea ferroviaria lungo il fiume Deschutes, nessuno avrebbe mai pensato che un giorno il disboscamento avrebbe creato le condizioni per i matsutake e l’attrazione di cercatori di funghi come veterani con disabilità, rifugiati asiatici, nativi americani o persone in clandestinità. Il mito del progresso avrebbe tracciato un’unica direzione ma gli assemblaggi dimostrando che ci sono diverse possibilità che allo stesso tempo riuniscono e creano modi di vivere.
I matsutake ci insegnano che per sopravvivere nelle rovine è fondamentale la contaminazione e la collaborazione come alternativa al progresso fine a se stesso. Contemporaneamente ci ricorda come il mito del progresso ci abbia portato a pensare la realtà in modo statico e acritico. Non mettiamo mai in discussione gli assunti fondativi della società nella crisi climatica e ogni attività profittevole si pensa possa essere scalabile fino al livelo dell’economia globale in modo lineare.
Invece il matsutake non ha questa scalabilità lineare, non si può decidere dove coltivarlo e il suo commercio è fatto di tante piccole storie e incontri che non possono essere governati. Si distingue, ad esempio, dalla produzione della canna da zucchero che si basa su cloni della stessa specie e sul controllo dei propri lavoratori. Nel caso dei matsutake i cercatori e le cercatrici sono “liberi” e vivono nelle logiche dell’indeterminazione.
Un fungo per immaginare un futuro al di là del realismo capitalista
Così ci viene mostrata la relazione tra “scalabile” e “non scalabile” alle periferie e ai margini del capitalismo, pur rimanendo all’interno dei suoi confini dove si cerca attuare l’accumulo di recupero, quella dinamica descritta da Anna Lowenhaupt Tsing con cui il capitale cerca di trasformare (o tradurre) in profitto cose immateriali come i saperi locali. Anche in questo caso i matsutake sono un esempio di resistenza alle dinamiche contemporanee.
Anna Lowenhaupt Tsing paragona il mercato di Open Ticket in Oregon - da dove parte la vendita dei matsutake grazie alla frequentazione delle popolazioni mien, hmong, lao e khmer - con i mercati di destinazione di Tokio e Kobe. Ebbene Open Ticket è al di fuori dal capitalismo mainstream ma allo stesso tempo è determinato dalle logiche del profitto e degli interessi.
I cercatori e le cercatrici di funghi matsutake si muovo in cerca della libertà, per avere quel guadagno promesso dal sogno americano, e lo fanno liberi da un qualsiasi reclutamento da parte di imprese o da forme di addestramento e disciplina. Eppure sono liberi perché quelle stesse comunità sono in uno spazio messo al margine dove lo Stato non è mai arrivato e li esclude. In questa storia la libertà si costruisce con la collaborazione tra comunità e mondo vegetale che permette una forma di sopravvivenza collaborativa laddove c’è un interstizio tra le dinamiche capitalistiche e il suo confine.
Anche per questo il matsutake è Il fungo alla fine del mondo, il suo commercio si inserisce tra le rovine del capitalismo e tra le parti non assorbite dentro al sistema capitalistico. Anna Lowenhaupt Tsing paragona la filiera produttiva dei matsutake come una “Nike al contrario”: se nel ventesimo secolo la Nike ha rivoluzionato l’immaginario globale con una produzione di massa gestita dall’impresa statunitense con pià di novecento contratti con aziende di tutto il mondo, il commercio di matsutake è distrubuito, frammentanto e dipendente da un intreccio instabile di relazioni tra raccoglitori umani, foreste disturbate e funghi non coltivabili che si estende al Nord America ma in qualità di fornitori invece che di direttori della filiera. I matsutake in altre parole sono il frutto di un dono nato dalla collaborazione multi-specie che ci mostra le alternative possibili al realismo capitalista.
La scienza come attività di traduzione per ripensare il progresso
Il fungo alla fine del mondo non si limita a raccontare delle storie ma ha anche un lato propositivo, come il ruolo che Anna Lowenhaupt Tsing propone per la scienza. Per attività di “traduzione” si intende un operazione con cui si supera la separazione fra i due ambiti, quello della natura, ovvero il mondo delle cose, e la cultura, il mondo degli esseri umani.
Anna Lowenhaupt Tsing pensa quindi a una scienza di traduzione nei termini in cui la scienza smette di essere un oggetto di studio a se stante per iniziare a prendere in considerazione anche le interazioni tra natura e umanità. Anna Lowenhaupt Tsing ci invita ad accogliere terreni comuni multi-specie venendo a patti col fatto che esistono indeterminazioni strutturali che possono rappresentare uno spazio politico alternativo.
Il fungo alla fine del mondo intende quindi partire da queste indeterminazioni che costituiscono il rapporto tra umanità e natura per trovare potenziali alleati per ripensare il concetto stesso di progresso.
Il fungo alla fine del mondo e il contributo all’ecologia politica
Anna Lowenhaupt Tsing mette in pratica la cosidetta “Art of notincing”, ossia l’arte del notare le cose intesa come imparare a prestare attenzione in modo deliberato, distinguendo tra guardare e vedere per cogliere dettagli, pattern e significati che spesso sfuggono nella distrazione generale. L’attenzione vine infatti considerata come un atto di cura che ci aiuta ad essere concentrati su ciò che si considera davvero importante in mezzo a tanto rumore. Per questo volevo fare un punto con te dei concetti fondamentali con cui penso Il fungo alla fine del mondo di Anna Lowenhaupt Tsing contribuisca all’ecologia politica:
C’è vita nelle rovine e i futuri non sono lineari: Anna Lowenhaupt Tsing ci ricorda come le rovine del capitalismo siano esse stesse un’alternativa che non va letto come uno spazio di fallimento ma uno spazio dove la vita si può rigenerare in modi inattesi offrendo una prospettiva diversa sul futuro che non per forza deve essere catastrofico
Patch e discontinuità ecologica: il mondo è fatto di spazi frammentati, interrotti e contaminati, dove coesistono molte specie e pratiche diverse da dove può nascere resilienza e creatività
Sopravvivenza collettiva e collaborazione multispecie: La sopravvivenza non è un’impresa individuale o umana, ma un processo collettivo e interspecie che richiede la cura, la collaborazione e il riconoscimento delle condizioni di interdipendenza ci aiutano a ripensare radicalmente la società nella crisi climatica, la politica e l’etica dell’abitare il pianeta
Traduzione come mediazione e dialogo: La traduzione è intesa come processo di mediazione tra mondi, culture, linguaggi e forme di vita differenti, spesso inconciliabili ma è pur sempre possibile sperimentare convivenze “vivibili” tra differenze profonde.
Critica della scalabilità e del progresso lineare: Tsing mette in discussione la nozione di crescita e progresso lineare tipica del capitalismo, proponendo invece forme di vita che sono anti-scalabili, locali, instabili e basate su reti relazionali che non puntano al controllo totale ma a forme di convivenza fragile e aperta.
Precarietà e vulnerabilità come condizioni condivise: l’attenzione alla precarietà come condizione comune di vita nella società nella crisi climatica implica un ripensamento della politica che parta dall’accettazione delle condizioni di vulnerabilità e dell’indeterminazione come elementi costitutivi delle comunità.
I paesaggi e i territori come risultato dell’interazione tra natura ed esseri umani: per Anna Lowenhaupt Tsing, il paesaggio è un assemblaggio complesso e dinamico di species multiple, segnato da interazioni continue tra esseri umani, animali, piante, funghi e fattori ambientali, che riflettono processi di contaminazione, disturbo e collaborazione; non è uno sfondo neutro o statico, ma un campo vivo di relazioni intrecciate, dove la vita si rigenera nelle “patch” di territorio disturbato, offrendo una prospettiva ecologica che sfida le divisioni tradizionali tra natura e cultura.
Incontrarsi nella società della crisi climatica
Più volte nelle pagine di Lettere nella crisi climatica abbiamo ricordato come in una società sempre più divisa e polarizzata sia fondamentale tornarsi a parlare affrontando il dilemma del porcospino.
Il fungo alla fine del mondo ci parla di incontri tra persone, storie e specie come dimostra anche “l’antifine” che Anna Lowenhaupt Tsing ha scritto per concludere il libro. Tsing ripercorre le storie dei personaggi, delle specie che abbiamo incontrato e delle “contaminazioni” culturali che possono avvenire anche attraverso parole scritte e lette.
Raccogliendo l’eredità di Ursula K Le Guin, Anna Lowenhaupt Tsing ci invita a cambiare punti di vista e a rifiutare la narrazione progresso come conquista violenta e unidirezionale. Tsing, come Le Guin, vede la vita come un mosaico di incontri, patch, collaborazioni imperfette tra specie diverse. Come ricordato da Le Guin, sono le raccoglitrici ad aver permesso la sopravvivenza delle comunità attraverso il lavoro quotidiano, paziente e relazionale con la natura. Per questo dovremmo iniziare a raccogliere incontri.
Questi incontri ci permettono di re-immaginare il futuro e di aprire mondi più vasti e inaspettati di quelli che una certa propaganda continua a proporre. Ed è forse anche grazie agli incontri che l’immaginazione diventa sempre più un atto politico che vive nell’indeterminazione delle singole biografie che si incontrano e nella tensione costante delle possibilità.
E tu cosa ne pensi? Vuoi consigliarmi un altro libro che ci può aiutare a reimmaginare la società nella crisi climatica? Rispondimi nella sezione commenti :)
Questa lettera è uno spazio per riflettere insieme sulla crisi climatica per andare oltre all’incomunicabilità con cui viviamo queste sfide. Quindi certamente ti leggo e ho cura di ogni tua interazione: scrivimi, commenta, condividi o lascia un cuoricino. Costruiamo insieme la community di Lettere nella crisi climatica.








Amo moltissimo quel saggio, la produzione di Anna Tsing e anche il modo in cui è in dialogo con un'altra grandissima osservatrice e pensatrice della nostra epoca, Donna Haraway, e sono davvero molto felice che qualcun altro abbia notato l'influenza di Ursula Le Guin sul modo in cui è scritto, strutturato e raccontato! Mi chiedevo se fosse solo una mia impressione. Mi ricorda molto in particolare la sua produzione di fantascienza e il ciclo degli Ainish. E d'altra Le Guin stessa nella sua scrittura è stata fortemente influenzata dall'ambiente dell'antropologia in cui è stata immersa fin da giovane, per cui è davvero un ciclo molto fertile di contaminazioni reciproche tra ipensiero antropologico e le possibilità di immagine un mondo diverso attrraverso la narrativa. Molto fungino, sì.