COP30: gli esiti dei negoziati per il clima di Belém
Quali sono gli esiti della COP30 di Belém e perché dovremmo rinnovare l’immaginazione oltre il realismo capitalista
La trentesima edizione dei negoziati per clima si è ufficialmente conclusa a Belém con un risultato poco ambizioso, incapace di offrire risposte efficaci anche sul tema dell’adattamento ai cambiamenti climatici, aspetto significativo per quella che doveva essere la Conferenza delle Parti (COP) dell’adattamento climatico.
Come ogni volta, al termine della COP30 di Belém la domanda non è tanto sugli esiti formali, quanto sulla capacità di questi negoziati per il clima di mantenere un potere trasformativo. In questo caso già prima dell’inizio della COP30 di Belém le prospettive apparivano fosche. Eppure un iniziale entusiasmo, alimentato da qualche progresso nelle discussioni tecniche, ci aveva illuso. Almeno fino alla fine della prima settimana dei negoziati per il clima, quando sono riemersi vecchi e nuovi interessi politici.
Le tensioni geopolitiche sembrano ormai fagocitare i negoziati per il clima, e l’assenza di un riferimento esplicito all’abbandono delle fonti fossili nel testo della Global Mutirão ha generato nuove delusioni tra chi segue da anni questo appuntamento. Forse dovremmo chiederci se stiamo riponendo le aspettative sbagliate sui negoziati per il clima e, partendo da questa consapevolezza, immaginare come rinnovare il processo stesso.
I negoziati per il clima sembrano soccombere a una sorta di “realismo capitalista”, per dirla alla Mark Fisher, ed è più facile immaginare la fine del mondo causata dalla crisi climatica che un futuro alternativo. Smettere di immaginare, però, significa cedere il passo al pragmatismo, al calcolo degli interessi e al mito della razionalità economica “neutra”, che spesso serve solo a evitare il confronto con ideologie, etiche e valori.
Non dimentichiamoci, tuttavia, che le COP restano spazi in cui le cose accadono anche al di là degli atti ufficiali. Se la Colombia intende davvero guidare un processo per l’abbandono dei combustibili fossili, questo qualcosa vorrà pur dire.
Come sempre, una risposta definitiva non c’è. In questa Lettera nella crisi climatica proviamo a ripercorrere gli esiti e le contraddizioni dei negoziati per il clima di Belém.
Quali sono gli esiti della COP30 di Belém e il Global Mutirão
I principali esiti della COP30 di Belém sono riassunti nel Global Mutirão, un documento politico che esprime l’interdipendenza tra i dossier chiave di questi negoziati per il clima: mitigazione, adattamento ai cambiamenti climatici e finanza.
Il documento finale di COP30 di Belém prende il nome dal Mutirão, un rituale brasiliano di cooperazione in cui si fanno le cose insieme per risolvere problemi collettivi e che il Brasile ha scelto come simbolo di questi negoziati per il clima.
Ci sono alcune dinamiche che hanno pesato sulla forma finale del Global Mutirão come il blocco dei Paesi in via di sviluppo composto dal G77 e la Cina che hanno influenzato il dibattito sui diversi temi sul tavolo dei negoziati per il clima, la proposta guidata dalla Colombia sul transitioning away dai combustibili fossili e la decisione di organizzare la COP32 ad Addis Abeba con il governo Etiope deciso a renderla una tappa fondamentale dell’adattamento ai cambiamenti climatici. Senza contare che il negoziato è sembrato essere trasversale, ciò su cui si cedeva in un tavolo diventava merce di scambio su un’altra discussione.
Quella che inizialmente doveva essere una Cover decision, un testo politico unificato con le risoluzioni più importanti, è progressivamente diventato un “package” (pacchetto) di decisioni. In una certa fase del negoziato per il clima di Belém è iniziata a circolare la voce della possibilità di avere un package A, con decisioni di un rango giuridico primario, e un package B, dove ospitare decisioni di carattere più volontario su questioni dove c’era meno consenso. Un parallelismo che forse potremmo riprendere confrontando il Global Mutirão e la Dichiarazione di Belém sulla transizione fuori dai combustibili fossili.
Tutto ciò è accaduto perché, come detto dallo stesso presidente di COP30 André Corrêa do Lago, l’idea di una roadmap per uscire dalle fonti fossili non lascia nessuno indifferente, dividendo il fronte tra Paesi particolarmente favorevoli e Paesi particolarmente contrari. Nel secondo gruppo rientrano certamente Italia e Polonia, che a fronte della mancanza di un mandato del Consiglio dell’Unione europea ha depotenziato il negoziato europeo, oltre che l’Arabia Saudita e la Federazione russa, con cui la Cina non è stata in grado di trattare.
I negoziati per il clima di Belém hanno mostrato la prima COP a trazione BRICS (un raggruppamento di economie mondiali emergenti formato inizialmente da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica a cui si sono recentemente aggiunti Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran e Indonesia). Il Brasile ha voluto provare a fare la storia dei negoziati per il clima cercando di dettare l’agenda con l’aiuto di una Cina con il ruolo di mediatore con Russia e India ma ovviamente non è bastato a causa del calcolo di interessi di ognuna delle nazioni citate.
D’altronde lo stesso Lula è riuscito nello stesso mese ad autorizzare l’esplorazione alla ricerca di petrolio in Amazzonia, nello stesso luogo dove ha provato a costruire il consenso globale sulla fine di quella risorse nelle prime versioni del Global Mutirão.
Alla fine il risultato è stato poco ambizioso anche per questo e il Global Mutirão non è riuscito a sciogliere alcuni nodi importanti rimasti fuori dall’agenda di COP30. Tra questi vi era il divario tra l’ambizione e l’attuazione degli impegni nazionali (Nationally Determined Contributions, NDCs) con gli obiettivi degli accordi.
Il Global Mutirão celebra i 10 anni dall’adozione dell’Accordo di Parigi del 2015 e riconosce che la conclusione del primo Global Stocktake, insieme alla consegna degli impegni nazionali (NDCs), dei Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs) e del primo round dei Biennial transparency reports segnano l’attuazione del ciclo di policy dell’Accordo. Nel documento vengono lanciate due iniziative chiave che si intrecciano con l’esito del primo Global stocktake, che dovrebbe informare l’aggiornamento e il rafforzamento delle misure dei singoli Stati.
Il Global Mutirão prevede il Global Implementation Accelerator pensato per sostenere l’attuazione degli impegni nazionali (NDCs) e dei Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs). Si tratta di un’iniziativa basata sulla cooperazione e sulla volontarietà sotto la guida della settima e ottava sessioni della Conferenza delle parti dell’accordo di Parigi al fine di mantenere l’obiettivo 1,5°C.
A tal proposito le presidenze dovranno elaborare un report riassuntivo tenendo conto dei risultati raggiunti con la COP21 di Parigi, i programmi di lavoro e le decisioni intraprese per completare l’accordo, il Chile-Madrid time for action, il Patto di Glasgow, il Piano di attuazione di Sharm el-Sheik, il Consenso raggiunto negli Emirati Arabi Uniti e il Patto di Baku.
Insieme a questo nel Global Mutirão è stata inserita la Belém Mission to 1.5 che, sempre sotto l’egida delle Conferenze delle parti dell’accordo di Parigi, punta ad accelerare l’attuazione, la cooperazione e gli investimenti sui contributi determinati a livello nazionale e dei Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici.
Nel Global Mutirão della COP30 di Belém viene però notato che a novembre 2025 sono 122 Stati, dei 195 che hanno ratificato l’Accordo di Parigi, che hanno presentato il nuovo impegno nazionale (NDCs) in vista del nuovo ciclo di Policy dell’accordo.
Pertanto emergono molti dubbi sul fatto che le decisioni prese a Belém sostanzialmente non offrono strumenti reali per colmare il divario tra elaborazione, attuazione e investimento a supporto del raggiungimento degli impegni nazionali (NDCs).
Allo stesso modo il Global Mutirão restituisce una fotografia sugli sforzi sui Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs) dove 71 paesi hanno presentato i Piani, di cui 60 sono Paesi in via di sviluppo, invitando tutti a presentarne uno entro la fine del 2025 per poi progredire nella loro attuazione entro il 2030.
Le perplessità che emergono riguardo allo scarso supporto previsto per gli impegni nazionali (NDCs) sembrano ripetersi quando parliamo dei Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs). Ad esempio, Il Global Mutirão sottolinea le sfide significative che i Paesi in via di sviluppo affrontano nell’accesso ai finanziamenti per l’attuazione dei Piani.
Per migliorare l’attuazione sia degli impegni nazionali (NDCs), sia dei Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs), il Global Mutirão riconosce il ruolo svolto di attori come la società civile, le imprese, le istituzioni finanziarie cosi come le città e gli enti subnazionali di ogni livello rafforzando il ruolo della “multilevel climate action” nel progresso verso gli obiettivi climatici.
Per quanto riguarda la finanza climatica viene istituito il work programme on climate finance dalla durata di due anni includendo l’articolo 9.1 nel quadro generale dell’articolo 9, senza pregiudicare il processo di attuazione del nuovo obiettivo collettivo quantificato in materia di finanziamenti per il clima (New Collective Quantified Goal - NCQG).
Su questo punto si “ribadisce l’invito” a tutti gli attori (all actors) di collaborare per consentire l’aumento dei finanziamenti destinati ai Paesi in via di sviluppo per l’azione per il clima con fondi pubblici e privati per raggiungere gli 1,3 trillioni entro il 2035 nel rispetto della “Baku to Belem Roadmap to 1.3T”.
Si chiede quindi lo sforzo per almeno triplicare la finanza per l’adattamento ai cambiamenti climatici entro il 2035 esortando ai Paesi sviluppati di migliorare il proprio contributo. Sulla scia della decisione presa durante la COP29 di Baku, questi obiettivi devono concorrere a mantenere la volontà di mobilitare almeno 300 miliardi di dollari l’anno.
Il fallimento brasiliano in questa COP30 di Belém consiste però nella sparizione del riferimento alla Roadmap sul Transitioning away dai combustibili fossili, che rimane confinata alla dichiarazione promossa dalla Colombia, e ci si limita a richiamare tutte le decisioni prese sul Global Stocktake senza citare gli aspetti più innovativi.
Tra gli aspetti un pò sottovalutati di questa COP30 di Belém è che i diritti umani sembrano sempre più messi in pericolo dalle tensioni geopolitiche anche nei negoziati per il clima. Anche se il Global Mutirão riconosce ampiamente gli obblighi sui diritti umani e la necessità di promuovere e considerare l’equità di genere, l’empowermet delle donne e l’equità intergenerazionale, nei diversi documenti usciti dalla COP30 di Belém gli Stati più conservatori hanno fatto di tutto per non fare riferimento esplicito alla tutela degli Human Rights Defenders e delle attiviste.
Oltre a questo la COP30 di Belém sembrerebbe aver deluso le aspettative dei Paesi sviluppati di avere degli indicatori certi sugli investimenti e la necessità dei Paesi in via di sviluppo di avere i mezzi e i finanziamenti necessari per raggiungere gli obiettivi climatici.
Davanti alle solite luci e ombre dei negoziati per il clima occorre avere pazienza e misurare gli effetti nel tempo ma ora vediamo cosa dicono i singoli filoni negoziali.
Adattamento ai cambiamenti climatici
La COP30 di Belém aveva aspettative altissime sull’Adattamento ai cambiamenti climatici ma già alla fine della prima settimana, con il rammarico della delegazione del Bangladesh espresso nella plenaria di chiusura dei tavoli tecnici, serviva un compromesso politico difficile sul Global Goal on Adaptation (GGA) e sui Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs).
Su questi tavoli l’impatto maggiore è stato causato dalla notizia che l’Etiopia avrebbe ospitato la COP32 ad Addis Abeba con l’intenzione di ottenere vittorie politiche proprio sul fronte dell’adattamento ai cambiamenti climatici.
L’intersezione tra i vari tavoli di lavori ha poi contribuito ad alimentare la tensione nei negoziati per il clima dedicato all’adattamento ai cambiamenti climatici: ai Paesi del sud globale non interessava tanto il numero di indicatori da approvare, anche se alcuni erano un pò scivolosi, ma avere degli strumenti pratici per poter progredire sull’adattamento climatico.
1000, 500, 100 o 50 indicatori per l’adattamento ai cambiamenti climatici vanno benissimo ma, così come i Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs) e il caso italiano del PNACC ne è un esempio, non hanno senso se mancano i finanziamenti adeguati.
Il “Global Goal on Adaptation” (GGA)
I negoziati per il clima sul “Global Goal on Adaptation” (GGA) erano stati accolti come il fulcro della COP30 di Belém ma gli esiti finali non lasciano molto soddisfatti. Il testo finale sul “Global Goal on Adaptation” (GGA) adotta gli indicatori e chiude il percorso “United Arab Emirates–Belém work programme” aprendo il “Belém-Addis Vision on adaptation” dalla durata biennale (2026-2027) per armonizzare metodologie, reporting e obiettivi in vista del secondo Global Stocktake.
Gli indicatori di Belém alimenteranno direttamente il Global Stocktake attraverso i report degli Stati grazie al lavoro dell’Adaptation Committee che sarà incaricato di analizzare le informazioni sui target tematici e dimensionali contenute nei biennial transparency reports, nelle adaptation communications e nei Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs) attraverso la lente del UAE Framework.
Gli indicatori del “Global Goal on Adaptation” (GGA)
L’aspetto positivo di questo negoziato sul “Global Goal on Adaptation” (GGA) è che dopo anni si è arrivati a una cornice comune, una lista condivisa e operativa per monitorare il progresso sull’adattamento ai cambiamenti climatici a livello globale. Aspetto ancora più importante se si pensa che il “Global Goal on Adaptation” (GGA) nell’immaginario dell’Accordo di Parigi è il corrispettivo dell’obiettivo di mantenere l’aumento delle temperature medie globali al di sotto di 1,5°C.
Gli indicatori del Global Goal on Adaptation approvati alla COP30 di Belém sono esplicitamente progettati per non creare barriere d’accesso ai finanziamenti per i Paesi in via di sviluppo e per non stabilire nuovi obblighi finanziari. La decisione enfatizza che gli indicatori devono rispettare la sovranità nazionale e le circostanze nazionali, e non devono servire come base di comparazione tra Paesi
Gli indicatori sono articolati in sette target tematici (paragrafo 9) e quattro target dimensionali (paragrafo 10). I target tematici coprono
Acqua: riduzione della scarsità idrica indotta dal clima e resilienza alle minacce legate all’acqua
Cibo e agricoltura: produzione agricola resiliente al clima e accesso equo a cibo e nutrizione adeguati
Salute: resilienza agli impatti sanitari del cambiamento climatico e riduzione di morbilità e mortalità
Ecosistemi e biodiversità: riduzione degli impatti sugli ecosistemi e accelerazione di soluzioni basate sulla natura
Infrastrutture e insediamenti umani: resilienza delle infrastrutture per garantire servizi essenziali continui
Povertà ed economia: riduzione degli effetti sul poverty eradication e promozione di protezione sociale adattiva
Patrimonio culturale: protezione del patrimonio culturale attraverso strategie guidate da conoscenze tradizionali e indigene
I target dimensionali riguardano: valutazione di impatto, vulnerabilità e rischio (con scadenza 2027 per early warning systems e 2030 per assessment completi); pianificazione (NAPs gender-responsive entro 2030); implementazione (progressi nell’attuazione dei NAPs entro 2030); e monitoraggio, valutazione e apprendimento (sistemi operativi entro 2030)
Gli indicatori possono essere disaggregati per categorie sociali (genere, età, disabilità, razza, status socioeconomico, status come Popoli Indigeni e migranti), caratteristiche geografiche, ecosistemi, e livelli amministrativi inclusi subnazionali e locali.
Nel testo inoltre viene sottolineata per la prima volta l’importanza dei contributi persone afrodiscendenti nell’adattamento ai cambiamenti climatici accanto ad altri gruppi in condizioni di vulnerabilità come i minori, i giovani, le persone con disabilità, le popolazioni indigene e le comunità locali e le persone con background migratorio.
A questo si aggiunge la necessità di tenere conto delle questioni di genere, dei diritti umani, dell’equità intergenerazionale e della giustizia sociale grazie anche ad approcci partecipativi e pienamente trasparenti.
È prevista una revisione degli indicatori di Belém dopo il secondo Global Stocktake nel 2029, con termini di riferimento (TORs) da sviluppare tra il 2026-2027.
La Belém-Addis Vision on adaptation e la Baku Adaptation Road Map
In questo contesto si inserisce la “Belém-Addis Vision on adaptation” che dovrà fare da ponte politico e tecnico per stabilizzare la lista di indicatori, raffinare i metadati e le metodologie con il fine di allinearli con i Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici, le comunicazioni sull’adattamento climatico e i rapporti di trasparenza.
Si tratta di un processo di allineamento politico di due anni (2026-2027) volto a sviluppare linee guida per operazionalizzare gli indicatori di Belém che verrà supportata da una task force tecnica.
Parallelamente, la Baku Adaptation Road Map (prima fase 2026-2028) si concentra sull’attuazione iniziale attraverso due workshop annuali e un technical paper, con l’obiettivo di allineare l’azione di adattamento agli scenari di temperatura dell’Accordo di Parigi, rafforzare l’implementazione dei target, migliorare la condivisione delle conoscenze e garantire l’accesso ai mezzi di implementazione.
La mancanza di supporto finanziario
Come per tutta la COP30 di Belém anche qui c’è un grande “però” che si riassume nel fatto che questo obiettivo globale di adattamento climatico resta politicamente sospeso perché la finanza resta delegata al Global Mutirão.
La decisione si limita a invitare il Global Environment Facility, il Green Climate Fund e l’Adaptation Fund a supportare i Paesi in via di sviluppo nell’attuazione del UAE Framework for Global Climate Resilience.
Gli indicatori includono misure specifiche per tracciare i finanziamenti per l’adattamento climatico forniti dai Paesi sviluppati e ricevuti dai Paesi in via di sviluppo, insieme al trasferimento tecnologico e al capacity-building.
La decisione sottolinea la necessità di supporto finanziario, tecnologico e di capacity-building “adeguato, prevedibile e accessibile” dai Paesi sviluppati ai Paesi in via di sviluppo, in conformità con l’Articolo 9 e gli Articoli 10-11 dell’Accordo di Parigi.
La decisione sull’Adaptation Fund riporta lo stato dell’arte sull’erogazione dei fondi e l’approvazione dei progetti sull’adattamento ai cambiamenti climatici. Tra il 1° luglio 2024 e il 30 giugno 2025, l’Adaptation Fund Board ha approvato 16 progetti nazionali, 2 progetti regionali multi-paese, diversi grant per l’innovazione (inclusi un large innovation grant completo, uno small innovation grant e grant per l’Adaptation Fund Climate Innovation Accelerator), e 13 project formulation grants.
Un’importante novità riguarda l’adattamento climatico a livello locale (locally led adaptation): sono stati approvati 2 progetti nazionali e 2 project formulation grants specifici, ed è stata lanciata una finestra di finanziamento dedicata ai progetti regionali di questa tipologia.
La decisione esprime preoccupazione per il mancato raggiungimento del target annuale di mobilitazione di 300 milioni di dollari da un numero più ampio di Paesi contributori ma contestualmente raddoppia i limiti di finanziamento per Paese da 20 a 40 milioni di dollari, con una dimensione massima per progetti e programmi nazionali singoli aumentata da 10 a 25 milioni di dollari mentre quella per progetti regionali multi-paese da 14 a 30 milioni di dollari.
Le sfide del tavolo su “Global Goal on Adaptation” (GGA)
Il risultato di questo tavolo dei negoziati per il clima è stato quello meno scontato di tutte al COP30 di Belém perché durante la prima settimana molti Paesi, in particolare quelli appartenenti al gruppo arabo, hanno sostenuto che mancasse ancora il consenso su questo filone di lavoro.
I Like-Minded Group of Developing Countries (LMDC), l’Alliance of Small Island States (AOSIS) e l’India hanno invece considerato per lungo tempo la lista di indicatori come “immatura” perché potenzialmente rischiosa in quanto avrebbe potuto generare nuovi obblighi con oneri di reporting poco sostenibili dai Paesi coinvolti, che sono tra l’altro quelli con una condizione di maggiore vulnerabilità di fronte ai cambiamenti climatici.
Altro terreno di scontro di questi negoziati per il clima è stato quello che ha riguardato il territorio del Monitoring, evaluation and learning (MEL), ossia quella parte di indicatori che avrebbe dovuto agevolare il monitoraggio dei progressi. Qui le divergenze erano tra i Paesi che volevano un quadro di valutazione guidato dalle Parti e i Paesi che avevano il timore di una valutazione troppo prescrittiva sulla capacità di adattamento ai cambiamenti climatici dei Paesi con meno mezzi. Dibattito che si è intrecciato con la divisione più politica sui “mezzi di attuazione” (Means of Implementation - MOI) dove i paesi sviluppati volevano includere set di indicatori per misurare i flussi finanziari e l’accesso ai fondi.
A questo punto non ci resta che osservare se i prossimi negoziati per il clima riusciranno ad affrontare il problema principale legato al finanziamento: l’adattamento ai cambiamenti climatici riceve solo il 26% della finanza per il clima internazionale, con la maggior parte sotto forma di debito (58% dei flussi nel 2022-2023). A oggi l’adattamento ai cambiamenti climatici è finanziato col debito pubblico, mancano finanziamenti privati dato che questi convergono maggiormente su mitigazione.
I Piani Nazionali di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (NAPs)
Per quanto riguarda il dibattito sui Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs) i negoziati si sono focalizzati sul tema della valutazione e della finanza per il clima, riprendendo il testo discusso nella settimana tecnica.
La decisione riconosce le esigenze e le difficoltà dei Paesi in via di sviluppo rispetto alle risorse economiche, il trasferimento tecnologico e al capacity-building. A questo si aggiunge anche il riconoscimento del fatto che il ritardo nell’ottenere i finanziamenti ostacola il progresso sull’adattamento, compreso il raggiungimento del “Global Goal on Adaptation” (GGA).
I negoziati tecnici si erano incagliati sull’aspetto economico dell’adattamento ai cambiamenti climatici, un mantra in tutti i tavoli dei negoziati per il clima di Belém. In particolare il gruppo arabo ha ritenuto che il riferimento ai mezzi di attuazione (Means of Implementation - MOI) non avrebbe dovuto includere “tutte le fonti di finanziamento” e il “finanziamento del settore privato”. Su questo l’Egitto ha sottolineato che il flusso di finanziamenti privati non è regolato dall’architettura di responsabilità dell’UNFCCC.
Anche in questo caso il dibattito si è intrecciato con la discussione sul sistema Monitoring, evaluation and learning (MEL) dove Australia, Canada e Unione europea hanno sostenuto che serve un ampio set di fattori per valutare l’efficacia politica dei Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs).
Nel testo approvato sono assenti i riferimenti alla natura e all’entità dei finanziamenti necessari, siano essi pubblici o privati, e alle responsabilità degli Stati parte. Il tema dei finanziamenti si limita all’importanza del monitoraggio dei flussi finanziari con una panoramica di quelli forniti dai Paesi sviluppati verso i Paesi in via di sviluppo.
Eppure si riconosce l’importanza di una maggiore conoscenza degli impatti dei cambiamenti climatici e delle soluzioni di adattamento climatico, nonché dei sistemi di Monitoring, evaluation and learning (MEL) per l’attuazione dei Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs) e al fine di avere una comprensione delle condizioni di vulnerabilità ai cambiamenti climatici.
In ogni caso, come riportato nel Global Mutirão, solamente 71 Stati hanno presentato la documentazione sui Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs), policy e processi di pianificazione sull’adattamento. Nel 2025 il Fondo per i Paesi meno sviluppati registra proposte per 60,3 milioni di dollari sui Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs), mentre il Green Climate Fund approva 320 milioni per l’adattamento in 121 Paesi in via di sviluppo. Occorrerà aspettare la COP35 del 2030 per avere una valutazione complessiva dei Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs).
Il dibattito sui finanziamenti a questo punto rivestirà un ruolo sempre più sensibile nei prossimi negoziati per il clima dato che l’attuale architettura finanziaria è sostanzialmente inefficace. Il rischio è quello di trovarsi in una situazione in cui i Paesi in una maggiore condizione di vulnerabilità soffrono gli impatti della crisi climatica accelerata dai Paesi sviluppati da cui saranno poi dipendenti a causa di prestiti con tassi di interesse difficilmente sostenibili, facendoli cadere nella trappola del debito. Insomma, non c’è propriamente un clima di fiducia tra i Paesi che prendono parte ai negoziati.
Mitigazione ai cambiamenti climatici
La COP30 di Belém ha confermato sulla carta l’obiettivo di 1,5°C e il ruolo centrale della scienza, ma non è riuscita a dotarsi degli strumenti politici necessari per trasformare questi riferimenti in tagli reali e tempestivi delle emissioni.
Nel Programma di Lavoro sulla Mitigazione (Mitigation Work Programme, MWP) si è negoziato per due settimane sapendo che, in presenza di una roadmap forte sull’uscita dal combustibile fossile, questo spazio avrebbe potuto essere superato o profondamente riformato.
La decisione stabilisce le modalità operative e il futuro dello Sharm el-Sheikh mitigation ambition and implementation work programme, il cui obiettivo è aumentare urgentemente l’ambizione e l’attuazione della mitigazione ai cambiamenti climatici nel decennio critico attuale, in maniera complementare al Global Stocktake.
Alla fine, in assenza della roadmap per l’uscita dai combustibili fossili, il Mitigation Work Programme si limita a indicare l’integrazione della piattaforma esistente sotto l’Articolo 6.8, aggiungendo funzionalità specifiche alla NMA Platform (piattaforma web dell’UNFCCC per registrare e scambiare informazioni sugli approcci non di mercato) per condividere esperienze su progetti che migliorano l’ambizione degli impegni nazionali (NDCs), ma senza nuovi strumenti vincolanti o scadenze più serrate.
Il programma sulla mitigazione dei cambiamenti climatici è infatti operazionalizzato attraverso scambi di opinioni, informazioni e idee, con esiti esplicitamente non prescrittivi, non punitivi, facilitativi e rispettosi della sovranità nazionale. Nella decisione si sottolinea ripetutamente che il programma non impone nuovi target o obiettivi, tiene conto della natura degli impegni nazionali (NDCs) e riconosce che i Paesi hanno punti di partenza, capacità e circostanze nazionali diverse.
Una componente su cui fa leva il programma sulla mitigazione dei cambiamenti climatici sono gli eventi investment-focused, che devono essere rafforzati per migliorare una funzione cooperativa di matchmaking per assistere i Paesi nell’accesso ai finanziamenti, inclusi grant e prestiti concessionali. La decisione richiede di invitare più banche multilaterali di sviluppo, istituzioni finanziarie e settore privato a partecipare agli eventi, oltre al Climate Technology Centre, Green Climate Fund e Global Environment Facility in linea con i loro mandati.
Il negoziato sul Mitigation Work Programme non è mai davvero decollato: la prima settimana ha prodotto due bozze di compromesso, ma le posizioni si sono irrigidite tra Paesi pronti a passi avanti e un blocco deciso a frenare, generando uno stallo sostanziale. Arabia Saudita e Zimbabwe hanno chiesto di eliminare dal preambolo ogni riferimento alla necessità di azioni urgenti per mantenere vivo l’1,5°C, mentre Nuova Zelanda e il gruppo AOSIS hanno difeso la centralità della scienza e del linguaggio di Parigi; la Cina, a sua volta, ha insistito per un allineamento stretto al testo dell’Accordo di Parigi.
Nella seconda settimana il nodo politico principale è diventato il rapporto tra Mitigation Work Programme e Global Stocktake: la Colombia ha chiesto di legare in modo esplicito e lineare la decisione sul Mitigation Work Programme ai testi del Global Stocktake, mentre l’Arabia Saudita ha respinto l’idea sostenendo che l’Accordo di Parigi non prevede strumenti di attuazione oltre agli impegni nazionali (NDCs).
Anche qui ci toccherà aspettare per vedere cosa accadrà dopo i negoziati per il clima di Belém, ma già da ora c’è una grande delusione per l’occasione mancata su una roadmap ordinata e incardinata nel processo delle COP, magari con strumenti a potenziamento degli impegni nazionali (NDCs).
La giusta transizione
Il compromesso raggiunto a Belém sul Just Transition Work Programme (JTWP) e sul nuovo Meccanismo di Giusta Transizione segna un passo avanti sul piano sociale, ma lascia irrisolti i nodi climatici.
La decisione sul Just Transition Work Programme afferma la natura multisettoriale, multidimensionale e trasversale delle transizioni giuste, per le quali non esiste un approccio universale. Il programma di lavoro promuove una comprensione collettiva delle transizioni giuste, non è prescrittiva come tutti gli altri documenti della COP30 di Belém e incoraggia un approccio olistico e integrato che riflette diverse circostanze e capacità nazionali.
Le just transition pathways sono rilevanti nel contesto della mitigazione, dell’adattamento ai cambiamenti climatici (incluso il rafforzamento della resilienza climatica e l’aumento delle capacità adattive) e della risposta a loss and damage, tutti essenziali per garantire che i percorsi di transizione giusta non lascino indietro nessuno.
Il testo adottato alla COP30 di Belém rafforza il linguaggio su diritti umani, equità e partecipazione, riconoscendo il diritto a un ambiente pulito e sano, il ruolo dei Popoli Indigeni e il principio del consenso libero, previo e informato. Per la prima volta entrano esplicitamente nel perimetro della giusta transizione anche temi come protezione sociale, lavoro di cura, formazione e sviluppo delle competenze.
La decisione sulla Just Transition riconosce che sono necessari approcci people-centric, bottom-up e whole-of-society per raggiungere transizioni giuste. L’importanza di garantire una partecipazione ampia e significativa coinvolge tutti i stakeholder rilevanti, inclusi lavoratori colpiti dalle transizioni, lavoratori informali, persone in situazioni vulnerabili, Popoli Indigeni, comunità locali, migranti e sfollati interni, persone di origine africana, donne, bambini, giovani, anziani e persone con disabilità. La decisione sulla Just Transition sottolinea l’importanza del dialogo sociale significativo ed efficace con tutti i partner sociali, il rispetto dei diritti del lavoro, e del lavoro dignitoso e di qualità per le transizioni giuste.
Con specifico riferimento all’adattamento ai cambiamenti climatici la decisione afferma esplicitamente che l’adattamento climatico e la resilienza climatica sono integrali alle transizioni giuste e dovrebbero essere inclusivi e dare potere ai Popoli Indigeni, le comunità locali, le donne e le persone in condizioni di vulnerabilità.
Viene sottolineata l’importanza della protezione sociale e dell’adattamento ai cambiamenti climatici a livello locale (locally led adaptation) nel contesto del rafforzamento dell’adattamento e della resilienza climatica come parte dei percorsi di transizione giusta.
La decisione include molteplici riferimenti all’uguaglianza di genere: riconosce nel preambolo la necessità di rispettare, promuovere e considerare l’equità di genere, l’empowerment delle donne e dell’equità intergenerazionale nell’azione climatica. Nella decisione sulla Just Transition le donne vengono inoltre riconosciute come stakeholder che devono essere incluse nella partecipazione significativa e come gruppo a cui restituire potere nel contesto dell’adattamento ai cambiamenti climatici. Tuttavia, non viene stabilito un programma di lavoro specifico sul genere o un gender action plan dedicato nel contesto della just transition.
Nella decisione viene creato un Meccanismo di Giusta Transizione, con l’obiettivo di aumentare la cooperazione internazionale, l’assistenza tecnica, il capacity-building e lo scambio di conoscenze, e di permettere percorsi di giusta transizione equi e inclusivi. Il meccanismo sarà complementare ad altri filoni di lavoro e strumenti sotto la Convenzione e l’Accordo di Parigi, e dovrebbe essere reso operativo a COP31.
La proposta sul Meccanismo di Giusta Transizione recepisce molte delle richieste della società civile che riguardavano il Belém Action Mechanism for a Global Just Transition (BAM) in quanto promette una maggiore coordinazione, accountability e la fine di una azione frammentata grazie anche la tracciamento dei progressi. Uno dei punti che occorrerà verificare col tempo riguarda il fatto che gli Stati hanno una forte autonomia e responsabilità sulla transizione giusta.
I percorsi di transizione giusta determinati a livello nazionale sono attuati attraverso piani, politiche e strategie climatiche nazionali come gli impegni nazionali (NDCs) e i Piani nazionali di adattamento ai cambiamenti climatici (NAPs)
I Paesi sono incoraggiati a considerare i percorsi di transizione giusta nello sviluppo e attuazione di questi strumenti, informati dagli esiti del primo Global Stocktake e allineati con le disposizioni rilevanti dell’Accordo di Parigi.
Altri strumenti internazionali o iniziative rilevanti che possono fornire elementi da considerare nella progettazione e attuazione dei percorsi di transizione giusta indicati nella decisione sono le ILO Guidelines for a just transition, l’UN Global Accelerator on Jobs and Social Protection for Just Transitions, gli UN Guiding Principles on Business and Human Rights, e la UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples.
La decisione però non cita il phasing out dei fossili né gli impegni di “transitioning away” concordati a Dubai nel 2023; manca qualsiasi riferimento diretto ai sussidi alle fonti fossili e al Global Stocktake, eliminato su pressione di gruppi come Arabia Saudita, Russia e Cina.
Il linguaggio su energia resta prudente: si incoraggia l’accesso universale all’energia, la diffusione delle rinnovabili, del clean cooking e il sostegno tecnico e finanziario, ma senza affrontare la questione della transizione energetica in termini di uscita graduale dal fossile.
Tra i filoni controversi che tareranno la discussione dei prossimi negoziati per il clima ci sarà la governance dei minerali critici, osteggiata a COP30 da paesi estrattivisti come la Cina, e il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) dell’Unione europea, accusato dal Sud globale di violare il principio di responsabilità comuni ma differenziate.
Global Stocktake
Il Global Stocktake nel linguaggio dell’UNFCCC è il “bilancio globale” dei progressi ottenuti nella risposta alle sfide poste dai cambiamenti climatici e nell’attuazione delle misure previste dall’Accordo di Parigi, si tratta quindi di meccanismo di valutazione di quanto stiamo facendo in questi tempi di crisi climatica.
L’articolo 14 dell’Accordo di Parigi dichiara che le COP verificano periodicamente l’attuazione dell’Accordo al fine di valutare i progressi collettivi compiuti verso la realizzazione dello scopo per cui esso è inteso e dei suoi obiettivi a lungo termine.
Durante i negoziati per il clima della COP30 di Belém il lavoro dei tre tavoli sul Global Stocktake è cristallizzato nel testo approvato, racchiudendo i risultati raggiunti dopo anni di stallo.
Lo United Arab Emirates Dialogue
Con la COP30 di Belém complessivamente viene stabilizzata la funzione dello United Arab Emirates Dialogue, deciso le modalità di attuazione dei risultati del primo Global Stocktake e chiarito l’utilità per il secondo ciclo.
Lo United Arab Emirates Dialogue avrà un carattere non prescrittivo con lo scopo di facilitare l’attuazione del primo Global Stocktake. Vengono poi previsti dei dialoghi annuali nel 2026 e nel 2027 a Bonn con l’intenzione di creare un ponte fino all’inizio del secondo ciclo del Global Stocktake che si terrà a COP33 nel 2028.
Il testo inoltre apre anche ai contributi degli osservatori, degli organismi tecnici, delle organizzazioni internazionali. Insomma al Global Stocktake non parteciperanno solamente gli Stati e viene ampliata la base informativa.
Nei futuri negoziati per il clima occorrerà vedere se questa volontà di includere altre voci verrà effettivamente portata avanti. Nel testo non ci sono riferimenti su modalità per assicurare l’interazione attiva tra le Parti e altri stakeholders, come ad esempio la possibilità di partecipazione virtuale o l’attenzione all’equità nell’accesso. Viene solamente garantita la possibilità di inviare contributi tre mesi prima del dialogo.
Questo aspetto assume ancora più importanza alla luce della decisione di usare formalmente i summary report prodotti dopo ogni United Arab Emirates Dialogue come input per il secondo Global Stocktake.
A completare il quadro sugli United Arab Emirates Dialogue vi è la previsione di un high-level ministerial round table che si terrà durante la COP32 di Addis Abeba nel 2027, aumentando il profilo politico del Global Stocktake.
I summary report dei dialoghi annuali del Global Stocktake
La COP30 di Belém introduce delle novità che riguardano il dialogo annuale sul Global Stocktake con cui gli Stati vengono incoraggiati esplicitamente a utilizzare nei processi nazionali le lezioni imparate e le buone pratiche contenute nei summary report.
Il testo valorizza il ruolo dei dialoghi annuali come spazio di apprendimento tra gli Stati ma conferma che si chiuderanno a giugno 2026, con la possibilità di riprenderli nel quadro del secondo ciclo del Global Stocktake. La funzione di questi dialoghi sono citati anche nel Global Mutirão.
Il secondo ciclo del Global Stocktake
Durante la COP30 di Belém gli Stati rischiavano di non trovare un accordo sul secondo ciclo del Global Stocktake e di riproporre le stesse procedure della prima volta, senza quindi apportare dei correttivi.
Un passo importante, non scontato in questi tempi, è che viene riconosciuto esplicitamente il ruolo centrale dell’IPCC come “best avaible science” dopo i numerosi attacchi da parte dei petrostati, anche se si prevedono contributi più rappresentativi da Paesi in via di sviluppo e istituzioni regionali.
Nel secondo ciclo del Global Stocktake viene inserito il tema del Loss and Damage che verrà trattato più esplicitamente. Si tratta di un argomento che ha rappresentato una frattura politica all’interno dei negoziati, con gli Stati insulari e i Paesi latino americani che chiedevano di trattare esplicitamente il Loss and Damage e Sudafrica, India, Arabia Saudita e Ghana intenzionate a mantenere la struttura originaria.
Si tratta di una soluzione di compromesso ma la decisione traccia una bozza di futuro per il Global Stocktake, nel complesso vengono evidenziati aspetti procedurali generali ma finiscono in un limbo aspetti come le tempistiche, roundtable di alto livello o a una governance rafforzata del processo. Non escludo la possibilità che questi aspetti vengano trattati in vista di COP33 utilizzando il “periodo ponte” tra i due cicli del Global Stocktake come una sorta di “Beta Test”.
Loss and Damage
Con le Barbados Implementation Modalities (BIM) la COP30 di Belém conclude i negoziati per il clima sul fondo dedicato al Loss and Damage dando avvio alla fase pilota di finanziamento con un primo pacchetto di interventi a fondo perduto per il biennio 2025-2026.
Queste modalità supportano approcci bottom-up, country-led e country-owned per rafforzare le risposte nazionali a loss and damage. La decisione accoglie con favore il lancio della call for funding requests sotto le Barbados Implementation Modalities e il Board ha preso decisioni riguardo ai criteri di finanziamento e alle modalità di accesso diretto.
Anche in questo caso abbiamo un “Beta Test” perché le Barbados Implementation Modalities (BIM) sono delle misure transitorie in attesa della definizione del modello di lungo periodo che verrà deciso con i futuri cicli di ricostituzione del Fondo per il Loss and Damage.
Con la decisione finale approvata alla COP30 di Belém viene accolto il primo rapporto del Board in cui sono riconosciuti i progressi nella definizione dei criteri di finanziamento e le modalità di accesso diretto, con la sollecitazione di convertire gli impegni in contributi effettivi.
Per quanto riguarda le risorse sul Loss and Damage i contributi finanziari annunciati arrivano a 817 milioni di dollari. Tuttavia non è stata adottata una strategia di mobilitazione delle risorse che il Board dovrà completare in linea con le decisioni sul nuovo obiettivo collettivo quantificato in materia di finanziamenti per il clima (New Collective Quantified Goal - NCQG) con la prima ricostituzione del fondo nel 2027.
In materia di Loss and Damage è stato inoltre approvato il rapporto congiunto del Comitato esecutivo del Warsaw International Mechanism (WIM) e del Santiago Network, riconoscendo i progressi nella messa in opera dell’assistenza tecnica ai Paesi in condizione di vulnerabilità, inclusa la prima attivazione di richieste di supporto.
La revisione del Warsaw International Mechanism (WIM) è fondamentale per rafforzare l’attuazione di questo meccanismo e renderlo complementare con il fondo dedicato al Loss and Damage. Ad esempio servirebbero maggiori dati sulle perdere non economiche e l’accesso alle conoscenze tecniche basate sulle esigenze degli Stati.
Nei prossimi negoziati per il clima occorrerà però prendere delle decisioni sostanziali sulla governance dato che il confronto è stato rinviato al 2026.
Cambiamenti climatici e questione di genere: il Gender Action Plan
Tra le discussioni portante avanti durante la COP30 di Belém vi è quella sul Gender Action Plan (GAP) che si proponeva di rendere operativa la connessione tra cambiamenti climatici e questioni di genere.
Il percorso che ha portato all’adozione del Belém Gender Action Plan (GAP) è stata tortuosa e, in particolare, si è complicata durante la settimana politica. Questo piano di azione su genere e cambiamenti climatici interesserà il periodo 2026-2034 con una prima revisione entro il 2029 in sinergia con il Lima Work Program on gender.
Genere e cambiamenti climatici, una questione sensibile nei negoziati per il clima
Durante i negoziati per il clima sul tema genere e cambiamenti climatici molta della tensione politica era legata ai termini che riguardavano diritti sessuali e riproduttivi, identità di genere, tutela delle donne attiviste e ambientaliste. Per restituire il polso del dibattito basta in realtà pensare al fatto che durante la COP29 di Baku sempre per questi motivi si era aperto un terreno di scontro.
Nel tavolo negoziale su genere e cambiamenti climatici di COP30 i Paesi più conservatori si sono mostrati inflessibili sui termini da inserire nel testo. La Federazione russa si è opposto sull’utilizzo di termini per cui ritiene che non ci sia un consenso condiviso tra gli Stati, come ad esempio “diritti alla salute sessuale e riproduttiva delle donne”, “persone nella loro diversa identità di genere”, “gender transformative” o “rispondente alle questioni di genere” (gender-responsive). Altri Paesi come l’Argentina, il Paraguay, l’Iran e la Santa sede hanno invece proposto una nota esplicativa sulla visione binaria del genere “uomo/donna”.
Quando parliamo dei negoziati per il clima non dobbiamo dimenticare che tra le sfide per raggiungere un accordo vi è quella di dover accogliere diverse prospettive culturali senza però inserirle tutte come interpretazioni ufficiali. Allo stesso modo i termini tecnici cercano di abbracciare la complessità sociale non togliendo nulla a quelli che possiamo definire come i Paesi più conservatori perché nella loro ampiezza si gioca l’interpretazione e l’applicazione di questi piani. In caso contrario si continuerebbero a riprodurre le solite dinamiche di potere.
Il nodo della tutela delle donne e delle attiviste vittime di violenza
Sempre sull’intersezione tra potere, genere e cambiamenti climatici non dobbiamo dimenticare che in questi negoziati per il clima Russia, Arabia Saudita e Paraguay hanno rifiutato di includere la tutela delle ambientaliste e delle attiviste per i diritti umani o delle donne vittime di violenza di genere.
Una visione che contrasta la realtà e il riconoscimento da parte delle stesse Nazioni unite di come le donne, sopratutto appartenenti alle popolazioni indigene, siano in prima linea e sotto attacco.
Ad esempio il report della Special Rapporteur on Humar Rights Defender Mary Lawlor, presentato a luglio 2025, documenta e denuncia la crescente repressione dei difensori del clima.
Le donne affrontano rischi specifici legati al genere come lo stigma sociale per aver sfidato norme tradizionali, le minacce di violenza sessuale, l’esclusione dai processi decisionali climatici, l’invisibilizzazione, la maggiore esposizione alla violenza di genere da parte della polizia durante le proteste, la discriminazione istituzionale, le diffamazioni misogine online, con maggiori pericoli per le donne trans.
Il Belém Gender Action Plan (GAP)
Il Belém Gender Action Plan (GAP) è un testo in formato tabellare in cui vengono indicate le priorità, gli obiettivi, le attività e i risultati attesi. Nel testo finale approvato spariscono le note controverse sulle distinzioni binarie e il linguaggio tecnico viene in parte recuperato.
Nel preambolo del Belém Gender Action Plan (GAP) si riconoscono gli effetti differenziati dei cambiamenti climatici su donne e bambine in base a fattori identitari, richiamando di fatto il concetto di intersezionalità anche se in una forma “annacquata”. Come visto in altri documenti negoziali, si riconoscono però le discendenti africane come i soggetti rilevanti per le politiche climatiche.
La decisione evidenzia la persistente mancanza di progresso e l’urgente necessità di migliorare la rappresentanza delle donne nelle delegazioni dei Paesi e negli organismi costituiti. Tuttavia, viene notato con apprezzamento il progresso significativo verso panel più bilanciati per genere negli eventi paralleli delle sessioni UNFCCC. Questa mancanza di progresso nelle delegazioni nazionali viene affrontata attraverso attività specifiche nel piano d’azione
Il Belém Gender Action Plan (GAP) individua XX priorità:
Capacity-Building, Knowledge Management e Communication: rafforzamento delle capacità istituzionali e individuali nei governi per pianificare, attuare, monitorare, valutare e rendicontare politiche climatiche con una prospettiva di genere;
Gender Balance, Participation e Women’s Leadership: promozione della partecipazione piena, significativa e uguale e la leadership di tutte le donne e ragazze, con particolare attenzione a donne indigene e delle comunità locali, attraverso iniziative di capacity-building per leadership e negoziazione ed eliminando barriere nei processi decisionali a tutti i livelli;
Coherence: garanzia di coerenza nel mainstreaming di genere attraverso il processo UNFCCC e con altre convenzioni e processi internazionali;
Gender-Perspective Implementation e Means of Implementation: mezzi per mettere in pratica le misure come ad esempio la finanza, la tecnologia e il capacity-building;
Monitoring and Reporting: meccanismi di monitoraggio e reporting per includere informazioni aggiuntive su trend, progressi e gap persistenti nel tempo, case studies evidence-based regionalmente bilanciati su fattori multidimensionali, e raccolta dati aggiuntivi su fattori multidimensionali nei processi di registrazione delle delegazioni.
Tra i punti controversi che restituiscono il conflitto nei tavoli di questi negoziati per il clima vi è l’uso di “gender perspective” al posto di “gender responsive”, la scomparsa dei riferimenti alla salute sessuale e riproduttiva e alla violenza domestica, mentre la violenza di genere compare solo in un punto.
Allo stesso modo le difensore dell’ambiente e le attiviste sono citate solo una volta nella priorità “partecipazione e leadership” senza però legare il tema della loro protezione agli obblighi derivanti dai diritti umani.
Il ruolo delle città durante i cambiamenti climatici
La COP30 di Belém ha però acceso un segnale da non sottovalutare e a più riprese si è riconosciuto formalmente il ruolo centrale delle città nelle sfide poste dai cambiamenti climatici.
Il presidente brasiliano di questi negoziati per il clima André Corrêa do Lago ha definito “assolutamente essenziale” la presenza dei sindaci e dei leader locali, mentre l’amministratore delegato Ana Toni ha battezzato l’evento come la “COP delle città”.
La COP30 di Belém ha visto i leader delle città e degli enti subnazionali riunirsi in una coalizione per sostenere una tabella di marcia che segni la fine dell’era dei combustibili fossili. Le città hanno infatti assunto una posizione chiara in cui non sono passive e in attesa delle direttive nazionali, spesso in contrasto con gli obiettivi climatici, ma intraprendono azioni concrete.
Senza contare che, come raccontato dalla responsabile della delegazione COP30 di C40 Cities Caterina Sarfatti, le donne sono le più colpite dal cambiamento climatico ma anche le promotrici di soluzioni volte a trasformare le aree urbane che aumentano le condizioni di vulnerabilità alla crisi climatica.
Allo stesso modo Mark Watts, direttore esecutivo del network C40 Cities, ha spiegato come i sindaci stiano smantellando la disinformazione coinvolgendo i residenti in soluzioni climatiche che migliorano concretamente la vita (come ad esempio le assemblee dei cittadini), creano buoni posti di lavoro e garantiscono strade più sane e pulite. Le città stanno inoltre lavorando per limitare direttamente la diffusione della disinformazione vietando la pubblicità ingannevole, sviluppando l’alfabetizzazione mediatica e chiedendo conto ai fornitori di media.
Il paradosso però è che nonostante gli spazi urbani rappresentino due terzi delle emissioni di CO₂ globali e siano i luoghi dove le politiche climatiche devono essere concretamente attuate, i sindaci continuano a partecipare ai negoziati per il clima come semplici osservatori, alla stregua di Amazon, Pepsi o Greenpeace. Per cinquanta settimane all’anno sono in prima linea nell’implementazione delle soluzioni, ma durante le due settimane dei negoziati per il clima devono limitarsi ad ascoltare gli altri parlare di ciò che loro stessi stanno realizzando.
Un iniziativa interessate a proposito è quella del Governo brasiliano che ha introdotto nel proprio impegno nazionale (NDCs) il concetto di “federalismo climatico” per migliorare il dialogo multi livello nel raggiungimento degli obiettivi climatici.
In questi negoziati per il clima si è poi tenuto un summit dei sindaci come evento ufficiale della COP30 di Belém dove il Brasile ha presentato il Plano de Aceleração de Soluções, una proposta di governance multilivello che include governi nazionali e locali come via per implementare l’Accordo di Parigi.
La Dichiarazione di Belém sulla transizione fuori dai combustibili fossili
Tra quelli che potremmo definire come gli “effetti collaterali” di questa COP30 vi è la presentazione della Dichiarazione di Belém sulla transizione fuori dai combustibili fossili (Belém declaration on the Transition Away from Fossil Fuels) promossa dalla Colombia.
La dichiarazione di Belém è una proposta sorprendentemente ambiziosa del governo socialista di Gustavo Petro di rilanciare il transitioning away di Dubai legandolo a una conferenza internazionale che si terrà in Colombia in primavera, la prima che riguarderà l’uscita dai combustibili fossili.
La dichiarazione di Belém di per sé è un impegno volontario sottoscritto da un gruppo di paesi durante la COP30 che intendono accelerare l’uscita dai combustibili fossili. La dichiarazione si basa esplicitamente sulla migliore scienza disponibile, richiamando i risultati dell’IPCC e significativamente accoglie con favore il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia sugli obblighi degli Stati in materia di cambiamenti climatici.
Nella dichiarazione di Belém vengono richiamati esplicitamente i risultati del primo Global Stocktake, dove i Paesi hanno riconosciuto la necessità di transitare dai combustibili fossili in maniera giusta, ordinata ed equa, accelerando l’azione in questo decennio critico. In questo senso la dichiarazione diventa uno strumento volontario per accelerare concretamente i progressi verso gli obiettivi climatici globali.
Un elemento centrale della Dichiarazione di Belém è il supporto alla richiesta di avanzare una roadmap per la transizione dai combustibili fossili con lo scopo di coordinare gli sforzi internazionali e tradurre gli impegni in azioni concrete, sebbene la Dichiarazione non fornisca dettagli specifici su tempistiche o target quantitativi.
Nella dichiarazione di Belém ci sono sette elementi chiave per l’uscita dai combustibili fossili:
Diverse circostanze nazionali: riconoscimento delle capacità, responsabilità e punti di partenza diversi;
Scale-up delle rinnovabili: importanza di aumentare rapidamente l’energia rinnovabile e l’efficienza energetica per sostituire la capacità energetica basata sui combustibili fossili;
Supporto a lavoratori e comunità in condizione di vulnerabilità: necessità di supportare lavoratori e comunità in condizione di vulnerabilità, nei Paesi dipendenti dalle industrie dei combustibili fossili, attraverso riqualificazione, diversificazione economica e misure di protezione sociale, con azioni che promuovano sviluppo sostenibile, rispetto dei diritti dei Popoli Indigeni, innovazione e società resilienti;
Condizioni abilitanti: importanza delle condizioni abilitanti, incluse capacità finanziarie, tecnologiche e tecniche, per avanzare una transizione globale, giusta ed equa che risponda ai contesti nazionali e affronti i bisogni delle comunità in condizione di vulnerabilità;
Cooperazione internazionale rafforzata: necessità di rafforzare la cooperazione internazionale, inclusi sforzi concertati per rendere l’architettura finanziaria globale più inclusiva, responsiva e di supporto alla creazione di spazio fiscale e al miglioramento dell’accesso a finanza non-debt-creating (non generatrice di debito) per i Paesi in via di sviluppo;
Economie diversificate e resilienti: importanza di promuovere economie diversificate, resilienti e inclusive che riducano la dipendenza strutturale dai ricavi da combustibili fossili e dall’importazione, favoriscano l’innovazione e garantiscano lavoro dignitoso e mezzi di sussistenza sostenibili;
Phase-out dei sussidi inefficienti: necessità di eliminare gradualmente i sussidi ai combustibili fossili inefficienti il prima possibile.
La Dichiarazione di Belém è un documento volontario e non vincolante sottoscritto da Paesi con una visione condivisa sulla necessità di accelerare la transizione dai combustibili fossili. A differenza delle decisioni formali dei negoziati per il clima, la Dichiarazione rappresenta un impegno politico di un gruppo di Paesi piuttosto che un accordo multilaterale universale. Però getta le basi per una costruzione progressiva di un futuro alternativo, il primo appuntamento sarà nell’aprile 2026 in Colombia. D’altronde dobbiamo ricordare che gli stessi negoziati per il clima sono composti da Stati, chissà se questo processo ci sorprenderà.
Con lo sguardo alla COP31 di Antalya, segnali per il futuro dei negoziati per il clima
Anche questa sessione dei negoziati per il clima ce la siamo levata anche se in molte e molti hanno già la testa alla COP31 di Antalya, in Turchia. In realtà anche questo risultato non era scontato e se la decisione riguardante la COP32 di Addis Abeba era inaspettata, tanto che ha scosso l’esito dei negoziati di Belém, quella sulla prossima COP è arrivata dopo un “negoziato nel negoziato”.
La sede favorita per COP31 era Adelaide in Australia, si trattava addirittura di una delle promesse elettorali del primo ministro Anthony Albanese al suo insediamento nel 2022. Anzi, l’Australia aveva già iniziato a pianificare l’evento con l’intenzione di coinvolgere nell’organizzazione i piccoli stati insulari del Pacifico.
Il quadro si è complicato con il rifiuto della Turchia di ritirare la propria candidatura, molti sostenendo che fosse una tattica negoziale per acquisire potere diplomatico e vantaggi. D’altronde era già successo in occasione di COP26, poi tenutasi a Glasgow, quando la Turchia ritiro la candidatura per ottenere favori diplomatici dal Regno Unito.
Se non si fosse raggiunto un compromesso, la Germania sarebbe stata obbligata a ospitare la prossima COP. Infatti nel caso in cui i cinque gruppi regionali delle Nazioni Unite non raggiungono l’unanimità sulla scelta del paese ospitante, la conferenza viene automaticamente organizzata a Bonn, dove ha sede l’UNFCCC. Questo è già accaduto due volte in passato: nel 1999 e nel 2017.
L’accordo comunque si è trovato grazie a una convergenza trovata tra il Presidente australiano Anthony Albanese e il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan: la Turchia organizzerà i negoziati per il clima nel 2026 mantenendo la presidenza formale, mentre l’Australia con il Ministro per il clima Chris Bowen avrà il potere di gestire e dirigere COP31, nominare i co-facilitatori, preparare la bozza del testo ed emanare le decisioni di copertura. L’Australia intende comune organizzare un incontro dei leader prima dei negoziati nel Pacifico e una raccolta fondi per il Pacific Resilience Facility.
L’eventualità della COP31 di Antalya comunque preoccupava molti Paesi occidentali dati gli esiti dei negoziati per il clima in stati poco impegnati sul fronte dei cambiamenti climatici, come nel caso dell’Azerbaijan, COP29, e degli Emirati Arabi Uniti, COP28). Questo senza contare i legami stretti della Turchia con Russia e Arabia Saudita, tradizionalmente non proprio dei campioni per il clima.
Certo, ci si potrebbe fare qualche domanda anche sull’Australia dato che è uno dei maggiori esportatori mondiali di carbone e di gas naturale, oltre che una delle più alte emissioni pro capite al mondo. La volontà di coinvolgere i piccoli stati insulari, in una condizione di maggiore vulnerabilità ai cambiamenti climatici, potrebbe però cambiare le carte in tavola.
Solo col tempo scopriremo luci e ombre della COP31 di Antalya ma da Belém abbiamo potuto tracciare alcune direzioni per il futuro dei negoziati per il clima:
le COP sono sempre più una questione geopolitica e in questi negoziati sono sempre più forti gli interessi delle grandi potenze;
il diritto internazionale e i diritti umani fanno paura anche se persone, come il nostro ministro degli esteri Tajani, continuano a ripetere che “conta fino a un certo punto”;
le COP possono fallire o essere un successo ma sono pur sempre composte da Stati, dobbiamo osservare anche cosa accade fuori dai negoziati per il clima;
le COP sono il luogo dei compromessi politici, il vero cambiamento può avvenire solo grazie all’immaginazione della società civile per far cambiare posizione a quegli stessi Stati che partecipano ai negoziati per il clima.
Il futuro nel nostro pianeta è nelle nostre mani e la COP30 di Belém ha dimostrato come una società civile che non si arrende può cambiare qualcosa. Non importa quanto sia grande il cambiamento ma anche una piccola vittoria può avere effetti inaspettati nel lungo periodo.
Tornando a guardare al nostro Paese, quelli di Belém hanno rappresentato il quarto appuntamento ai negoziati per il clima del Governo Meloni I e il primo senza la presenza del Presidente del Consiglio (per l’occasione sostituito dal Ministro degli esteri Tajani nel summit dei Leader).
Col tempo le posizioni dell’Italia del Governo Meloni I ai negoziati per il clima si sono fatte sempre più conservatrici ma sempre meno da leader. Di fatto l’Italia non prova a influenzare i negoziati per il clima, anche perché tratta come parte dell’Unione europea, e si lascia trasportare tenendo l’attenzione per portare qualche piccolo interesse (ad esempio ogni tanto riciccia la promozione del Piano Mattei). Qualche altro stato, nel frattempo, si nasconde dietro la posizione dell’Italia per dire “è colpa loro, mica nostra se non si ottengono risultati” a simbolo di quel magico fenomeno chiamato free riding.
Durante la COP30 di Belém è stato anche presentato il Climate Change Performance Index (CCPI) 2026, un indice che valuta come i paesi stanno affrontando i cambiamenti climatici che arriva alla ventunesima edizione. L’indice mostra progressi significativi a 10 anni dall’Accordo di Parigi: le prospettive sulle temperature globali sono migliorate da 3,5°C a circa 2,5°C entro fine secolo, e due terzi dei Paesi stanno riducendo le emissioni, mentre un terzo continua ostinatamente ad aumentarle.
La Danimarca guida la classifica per il sesto anno consecutivo, seguita da Regno Unito, Marocco e Cile, mentre l’Italia è scesa al quarantaseiesimo posto (dal ventinovesimo di quattro anni fa). Insomma mentre il nostro paese continua a subire gli impatti della crisi climatica e a pagare i costi dei cambiamenti climatici, l’effetto del Governo Meloni I si vede chiaramente.
A preoccupare particolarmente però sono le 10 nazioni del G20 - tra cui Cina, Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita e i candidati a ospitare la COP31 (Australia e Turchia) - che da sole rappresentano il 75% delle emissioni globali, dimostrando che i maggiori responsabili della crisi climatica non stanno agendo abbastanza velocemente nonostante l’espansione esponenziale delle energie rinnovabili e il ruolo fondamentale dell’Accordo di Parigi nell’abbattimento delle emissioni.
Quindi, possiamo avere del cauto ottimismo e fiducia nel futuro dei negoziati per il clima ma sicuramente dobbiamo continuare a immaginare un mondo diverso e a non abbandonare il nostro ruolo per realizzare la giustizia climatica o andare oltre al realismo capitalista.
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Questa lettera è uno spazio per riflettere insieme sulla crisi climatica per andare oltre all’incomunicabilità con cui viviamo queste sfide. Quindi certamente ti leggo e ho cura di ogni tua interazione: scrivimi, commenta, condividi o lascia un cuoricino. Costruiamo insieme la community di Lettere nella crisi climatica.











