COP30: la prima settimana di Belém
La COP30 di Belém chiude la prima settimana con colpi di scena sull’adattamento ai cambiamenti climatici
Con la trentesima edizione dei negoziati per clima di Belém torna come protagonista assoluto il tema dell’adattamento ai cambiamenti climatici. Bisogna dire prima dell’inizio della COP30 di Belém le prospettive non erano le più rosee e si temevano le conseguenze di un fronte frammentato a causa delle pesanti defezioni e delle dinamiche geopolitiche. Eppure molti dei commentatori presenti a Belém hanno raccontato di un’atmosfera “elettrica e concreta”, comunque “sicuramente diversa” nonostante il possibile colpo di scena degli ultimi giorni.
Nelle ultime Conferenze delle Parti (Conference of the Parties - COP) si è messo sempre più in dubbio il potenziare trasformativo dei negoziati per il clima e a Sharm el-Sheikh (COP27), Dubai (COP28) e Baku (COP29) vi è sempre stata un atmosfera cupa, dello stesso colore del petrolio commerciato da questi Stati.
Un aspetto singolare perché proprio negli ultimi negoziati per il clima le parole più usate sono state “neutralità climatica”, “phase-out dei fossili” e “Nationally Determined Contributions (NDC) al 2035”, arrivando poi a fatica a un risultato concreto. Ora invece con la COP30 l’adattamento ai cambiamenti climatici torna al centro dei negoziati per il clima e torna a essere uno di quei pilastri che era già stato individuato con la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC).
Che sia dovuto al fatto che l’adattamento climatico è un tema meno divisivo tra gli Stati che prendono parte ai negoziati per il clima? Oppure più semplicemente non si può negare le evidenze davanti ai continui pugni in faccia che riceviamo dalla crisi climatica?
Anche uno Stato come l’Italia, collocato in un’area riconosciuta come hot-spot climatico nel bacino del Mediterraneo, ad esempio subisce già oggi gli effetti sempre più rilevanti – tra eventi estremi, degrado ambientale e pressione crescente sulle risorse naturali.
Di fronte a tutto ciò adattarsi diventa un imperativo non più prorogabile ma la sfida di questa COP30 è stata fotografata dall’Adaptation Gap Report 2025 del Programma dell’Ambiente delle Nazioni unite (UNEP):
i Paesi in via di sviluppo avranno bisogno tra 310 e 365 miliardi di dollari l’anno entro il 2035 per adattarsi agli effetti dei cambiamenti climatici;
la finanza pubblica internazionale per l’adattamento oggi è intorno ai 26 miliardi di dollari l’anno
I risultati li vedremo alla fine, in questa lettera nella crisi climatica ti racconto come è andata la prima settimana di questi negoziati per il clima, la COP30 di Belém. Come sempre ti aspetto nei commenti per parlarne insieme!
L’agenda dei negoziati per il clima di Belém
Come raccontato da Italian Climate Network, questa COP30 di Belém è iniziata con il piglio giusto e una plenaria efficiente. Insomma tutta un’altra storia rispetto ai negoziati per il clima che si sono tenuti nei “petrostati”. A causa delle profonde divergenze a Baku la plenaria di COP29 si dilungo molto proprio sull’approvazione dell’agenda.
Diversamente per la COP30 di Belém il Brasile ha svolto un lungo lavoro diplomatico per evitare quanto visto con la COP29 e adottare ufficialmente l’agenda con l’intento di dare subito avvio ai lavori dei negoziati per il clima durante il primo giorno.
L’agenda dei negoziati per il clima è un argomento molto sensibile perché tutti i Paesi che prendono parte alla COP devono approvare per consenso (quindi senza alcun voto contrario) l’elenco dei temi su cui discutere nel corso di due settimane.
La conseguenza è quindi molto semplice: quello che rientra nell’agenda trova spazio formale nei negoziati per il clima e alla fine della COP potrà vedere la luce nei documenti, il resto viene rimandato ai “negoziati di corridoio” o negli eventi collaterali.
Qual è l’agenda di COP30?
L’agenda approvata per la COP30 di Belém possiamo riassumerla così:
Apertura della sessione dei negoziati per il clima
Questioni organizzative (elezione del Presidente e degli officers della COP, adozione delle regole di procedura e dell’agenda, ammissione degli osservatori, organizzazione dei lavori, individuazione del Paese ospitate per la prossima COP)
Report degli organi sussidiari della COP (Organo sussidiario di consulenza scientifica e tecnologica, Organo sussidiario di attuazione)
Resoconto e revisione dei Paesi parte alla Convezione
Questioni relative all’adattamento ai cambiamenti climatici
Relazione del Comitato per l’adattamento
Esame dei progressi, dell’efficacia e dei risultati del Comitato per l’adattamento
Piani nazionali di adattamento
Meccanismo internazionale di Varsavia per le perdite e i danni associati agli impatti dei cambiamenti climatici
Questioni relative alla finanza per il clima:
Questioni relative al Comitato permanente per le finanze
Relazione e orientamenti del Fondo verde per il clima, del Fondo mondiale per l’ambiente e del Fondo per rispondere al Loss and Damage alla COP
Comunicazione biennale delle informazioni relative all’articolo 9, par 5, dell’Accordo di Parigi
Settima revisione del meccanismo finanziario
Questioni relative allo sviluppo e al trasferimento tecnologico
Relazione annuale congiunta del Comitato esecutivo per la tecnologia e del Climate Technology Centre & Network
Collegamenti tra il meccanismo tecnologico e il meccanismo finanziario
Revisione delle funzioni del Climate Technology Centre
Questioni relative al capacity-building
Questioni relativi ai paesi meno sviluppati
Relazione del forum sull’impatto dell’attuazione delle misure di risposta
Cambiamenti climatici e questioni di genere
Questioni amministrative, finanziari e istituzioni (budget, finanziamento e decision-making nel processo dell’UNFCCC)
High-level segment con le dichiarazioni degli Stati parte e delle organizzazioni osservatrici
Conclusione della sessione dei negoziati per il clima
Quali punti sono stati esclusi dall’agenda di COP30?
Durante la discussione dell’Agenda diversi Paesi avevano chiesto di inserire otto nuovi punti ma la presidenza brasiliana di COP30 ha optato per un compromesso: tre di queste sono state subito escluse, mentre altre cinque sono state discusse fino al 12 novembre in consultazioni con la Presidenza e le delegazioni per chiarire se e come discuterle durante i negoziati per il clima di Belém.
I punti già esclusi e rinviati a un’eventuale discussione nella COP31 sono:
la finanza climatica a lungo termine
la revisione periodica degli obiettivi climatici di lungo periodo e dei progressi correlati
tavolo negoziale sugli esiti del primo Global Stocktake (attuazione della decisione 1/CMA.5)
I cinque punti messi in stand-by e che sono stati oggetto della consultazione con la Presidenza hanno invece riguardato:
Misure commerciali unilaterali legate al clima (Trade-Restrictive Unilateral Measures - TRUMs) come il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) dell’Unione europea, una misura che entrerà a regime dal 2026 dove si applica un prezzo al carbonio sui beni importati per ridurre il carbon leakage;
Risposta al rapporto di sintesi sugli contributi determinati a livello nazionale (NDCs) per colmare il “gap 1,5°C” attraverso un confronto su come alzare l’ambizione per il decennio 2025-2035
Trasparenza ai sensi dell’articolo 13 dell’Accordo di Parigi, l’Unione europea ha depositato una proposta per ricevere ufficialmente il report dell’Enhanced Transparency Framework (ETF) e condividere progressi, buone pratiche e barriere all’azione
Obbligo dei Paesi sviluppati di fornire risorse finanziare ai Paesi in via di sviluppo per mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici ai sensi dell’articolo 9.1 dell’Accordo di Parigi
“special need and special circumstances of Africa” in vista della COP32 che si terrà nel continente africano
I punti in agenda che vengono sospesi a ogni negoziato per il clima
Tra le tradizioni dei negoziati per i clima vi è quella di tenere in sospeso (held in abeyance) due punti che riguardano la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) per decisione politica in quanto riguardano la struttura stessa dei negoziati per il clima.
Ciò riflette il delicato equilibrio dei negoziati per il clima: da una parte si vuole evitare l’apertura di discussioni potenzialmente divisive che potrebbero scardinare compromessi storici, dall’altra la struttura concepita oltre trent’anni fa potrebbe richiedere un ripensamento alla luce del mutamento geopolitico e scientifico avvenuto in questo lasso di tempo.
A essere interessate dalla sospensione sono infatti la proposta della Federazione Russa del 2012 con cui si vuole emendare la modalità di revisione periodica delle liste di Paesi contenuti nell’Allegato I e ne “non-annex I”, la proposta di Papua Nuova Guinea e Messico che intende modificare il meccanismo di voto passando dalla regola del consenso a quella della maggioranza qualificata e infine c’è il tema la seconda revisione dell’adeguatezza degli impegni dei Paesi dell’allegato I.
Se la proposta di Papua Nuova Guinea e Messico insistono sulle modalità decisionali (articoli 7 e 18 della UNFCCC), le altre due riflettono precisamente l’impatto dei cambiamenti geopolitici degli ultimi trent’anni sui negoziati per il clima. La proposta della Federazione Russa (modifica dell’articolo 4, paragrafo 2, lettera f dell’UNFCCC) vuole modificare le liste che dividono tra economie industrializzate e in transizione con obblighi di mitigazione più stringenti (allegato I) e Stati in via di sviluppo con obblighi più flessibili e accesso preferenziale al sostegno finanziario e tecnologico (i cosiddetti “non-annex I”).
Il dibattito sull’adeguatezza degli obblighi dei Paesi dell’Allegato I è invece una conseguenza dell’articolo 4, paragrafo 2, lettera (d della convenzione con cui si prevedeva la revisione periodica di questi obblighi alla luce delle nuove conoscenze scientifiche e delle condizioni socioeconomiche.
La prima revisione si svolse durante la COP1 di Berlino nel 1995 che si concluse con il “Berlin Mandate” con cui le Parti riconobbero l’inadeguatezza degli impegni esistenti, avviando di fatto i negoziati che portarono al Protocollo di Kyoto del 1997. La seconda revisione venne discussa durante i negoziati per il clima di Buenos Aires del 1998 (COP4) ma non si arrivò mai ad alcun accordo. Dalla COP5 di Bonn del 1999 a oggi il punto della seconda revisione è stato inserito nell’agenda e tenuto in sospeso per mancanza di consenso sull’inclusione o meno nella revisione anche di nuovi impegni per i Paesi in via di sviluppo (non-annex I).
È abbastanza intuitivo capire il motivo politico della sospensione dato che ognuna di queste modifiche potrebbe stravolgere gli equilibri tra paesi del nord e del sud globale toccando direttamente l’architrave normativo della Convenzione, ossia il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”.
Cosa è successo nella prima settimana dei negoziati per il clima di Belém
Durante la prima settimana della COP30 di Belém, i negoziati si sono concentrati su rafforzamento dell’adattamento ai cambiamenti climatici, giusta transizione e finanza climatica, con un approccio considerato più inclusivo rispetto alle precedenti edizioni. In generale si può dire che tutti i tavoli avanzano alla seconda settimana, quella in cui i Ministri diventano i protagonisti, con le marginali eccezioni dei tavoli di lavoro su meccanismi finanziari e tecnologici e sui trasporti aerei e marittimi, entrambi rimandati agli intermedi di Bonn 2026. Ora però vediamo su cosa si è discusso durante la prima settimana di COP30.
Adattamento ai cambiamenti climatici
Non dobbiamo nascondercelo, l’adattamento ai cambiamenti climatici è uno di quei temi che viene spesso sottovalutato e dimenticato nel dibattito sulla crisi climatica. Il problema però è che non può esserci un futuro degno di questo nome puntando solo sulla mitigazione ai cambiamenti climatici (in estrema sintesi la riduzione delle emissioni) o sull’adattamento climatico (la risposta agli effetti della crisi climatica, anche qui semplificando di molto).
L’una è funzionale all’altra, se anche spegnessimo l’interruttore delle emissioni continueremmo a subire gli impatti del disastro che abbiamo provocato mentre in uno scenario Business As Usual nel lungo periodo le misure di adattamento diverrebbero inutili per gli impatti sempre più forti.
Anche per questo uno degli indicatori che verrà utilizzato per misurare il risultato della COP30 di Belém sarà proprio nei negoziati per l’adattamento climatico e, in particolare, quelli relativi al Global Goal on Adaptation (GGA) e ai Piani Nazionali di Adattamento ai Cambiamenti Climatici.
Nel caso del Global Goal on Adaptation (GGA) parliamo dell’”obiettivo globale di adattamento” inserito nell’Accordo di Parigi con cui nella pratica si decide cosa significa “adattamento” con lo scopo di misurare le azioni e indirizzare i fondi utili a evitare che la crisi climatica moltiplichi le condizioni di vulnerabilità distruggendo territori, vite ed economie.
Per quanto riguarda i Piani Nazionali di Adattamento ai Cambiamenti Climatici invece parliamo del documento programmatico che ogni Stato dovrebbe adottare per programmare le misure utili a compensare, prevenire, attutire o correggere gli impatti della crisi climatica con interventi pianificati a livello territoriale e volti a rafforzare la resilienza dei territori e delle comunità.
Il tema del come valutare collettivamente questi piani è un argomento sensibile e complesso, pensa che l’Italia ha adottato il proprio Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (PNACC) nel dicembre 2023 ma a distanza di 2 anni non è ancora operativo (senza contare le numerose critiche dei commentatori).
La situazione ovviamente cambia da Paese a Paese, per i Paesi industrializzati spesso la mitigazione sembra essere più rilevante ma con la crisi climatica sempre più feroce Stati come l’Italia si trovano alle prese con gli eventi estremi, trovandosi quindi in una posizione più simile per i Paesi in via di sviluppo per cui l’adattamento ai cambiamenti climatici è un urgenza. Il problema dell’adattamento, se vuoi un problema anche comunicativo con ricaduta sulla percezione delle persone, è che risulta difficile circoscriverlo e raccontarlo.
Quando parliamo di mitigazione ai cambiamenti climatici ci vengono subito in mente immagini come quelle delle pale eoliche, dei gigawatt che usiamo per misurare quanto contribuiscono al nostro fabbisogno energetico o alla quantità di emissioni che siamo riuscite a eliminare. Anche se non si trova un accordo politico per i diversi interessi in gioco, non c’è dubbio sul fatto che riusciamo a misurare cosa è la mitigazione e la nostra distanza dal raggiungimento degli obiettivi climatici perché abbiamo dei parametri comuni e chiari.
La COP30 di Belém sta lavorando proprio su questi parametri comuni tenendo conto che quando parliamo di adattamento ai cambiamenti climatici invece pesano le differenze territoriali. Parlare di adattamento climatico in Svizzera sarà differente da come farlo in Italia o in Kiribati, così come ad esempio in Italia sarà diverso adattarsi ai cambiamenti climatici in Sicilia rispetto alla Lombardia o all’Emilia-Romagna.
Per dare una fotografia di questa sfida basti pensare che molto prima di questi negoziati per il clima il Panel di esperti aveva proposto quasi 10 mila indicatori e che negli anni si è raffinato per arrivare ai 100 su cui si è discusso durante COP30. Questa sfida non è banale perché si cerca di trovare l’equilibrio tra scienza e politica, tra il verificare lo stato dell’adattamento climatico nei singoli Paesi e la possibilità di creare un set di che permettano di creare il giusto consenso a supporto delle azioni politiche.
Il “Global Goal on Adaptation” (GGA)
I negoziati per il clima di Belém per quanto riguarda il “Global Goal on Adaptation” (GGA) come ti dicevo hanno ripreso la conversazione dai 100 indicatori proposti da un gruppo di esperti.
Durante questa settimana il negoziato sul Global Goal on Adaptation è partito con un consenso sulla natura volontaria degli indicatori in modo che non siano prescrittivi, punitivi o condizionali all’accesso alla finanza.
Non sono sembrati esserci grandi tensioni proprio perché si parte da una base comune volontaria però nel tavolo su Global Goal on Adaptation le due grandi tendenze vedevano Stati intenzionati a ridefinire gli indicatori riguardanti i mezzi di attuazione e Stati pronti ad adottarli cosi come sono stati presentati dato il lavoro già svolto in questi anni dal comitato di esperti.
Negli ultimi due giorni della prima settimana di COP30 il Global Goal on Adaptation (GGA) sembrava destinano a diventare un pezzo chiave del successo della Presidenza brasiliana, con altri tavoli che rimandavano la discussione di alcuni punti proprio perché si stava ancora negoziando l’obiettivo globale d’adattamento.
Le molteplici tessere di questo puzzle dovrebbero essere composte dai risultati su giusta transizione, finanza per il clima e la cover decision sul transitioning away dalle fonti fossili.
Eppure qualcosa sembrerebbe essersi rotto proprio al termine della settimana con i primi segnali di nervosismo da parte dell’Arabia Saudita che ha iniziato a esprimersi fortemente contrariata per i riferimenti all’IPCC dicendo che il riferimento al 1,5°C fosse anti-scientifico perché ormai l’obiettivo è stato superato.
Come se ciò non bastasse, improvvisamente è arrivata una decisione inaspettata in questa COP30 che sta avendo delle conseguenze ancora meno lineari. Se dopo la prima settimana di negoziati è ancora apertissima la competizione tra Australia e Turchia per ospitare la COP31 del 2026, si è giunti alla decisione sul paese africano che secondo il criterio della rotazione geografica ospiterà COP32 nel 2027.
La COP32 si terrà ad Addis Abeba nel 2027 perché l’Etiopia ha ottenuto il ritiro della proposta nigeriana, diventando l’unico contendente con lo stupore di molti. La candidatura della COP32 di Addis Abeba ha molteplici significati, l’Etiopia è infatti uno dei Paesi BRICS dal 2024, è la sede dell’Unione Africana ed è il principale hub aeroportuale del continente.
La scelta però potrebbe avere delle ripercussioni sui risultati raggiunti sul Global Goal on Adaptation (GGA) durante la prima settimana e i 100 indicatori per l’adattamento ai cambiamenti climatici perché proprio l’Etiopia vorrebbe centrare la visibilità politica della COP32 di Addis Abeba sull’adattamento climatico, la finanza per il clima e la preparazione al secondo Global Stocktake previsto alla COP33 che si terrà in India (altro Paese BRICS).
Il problema tutto politico interno ai Paesi BRICS è che se la COP30 di Belém raggiunge dei risultati su questi tavoli di lavoro allora la presidenza della COP32 di Addis Abeba dovrebbe rivedere fortemente le proprie priorità, aspettative e possibilità di avere una vittoria politica.
Cosa potrebbe accadere? Secondo una fonte riportata da Italian Climate Network l’Etiopia potrebbe lavorare dietro le quinte per convincere gli alleati dell’African Group a rallentare i lavori sull’adattamento climatico, creando un ostruzionismo tattico che possa abbassare fortemente i risultati in modo da poter traghettare il tema fino alla COP32 di Addis Abeba del 2027, creando l’opportunità per la vittoria negoziale e politica dell’Etiopia. Non ci resta che aspettare la fine dei negoziati per il clima di Belèm per avere chiari segnali per il futuro delle COP.
I Piani Nazionali di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (NAPs)
Più complesso è sembrato invece il percorso per giungere a una posizione comune sui Piani Nazionali di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (NAPs) e sulla loro valutazione collettiva, riconosciuti da tutte le parti come strumenti necessari e urgenti questo tema era già stato rinviato alla COP29 di Baku e nei negoziati intermedi di Bonn di quest’anno.
La prima settimana di negoziati per il clima a Belém ha confermato la determinazione a giungere a un accordo sui Piani Nazionali di Adattamento ai Cambiamenti Climatici entro la fine di COP30. Le perplessità iniziale era sulla modalità di attuazione di questi Piani, mentre i Paesi in via di sviluppo hanno da subito richiamato l’attenzione sulla necessità di rafforzare finanziamenti, trasferimento tecnologico e sviluppo delle capacità tramite il supporto dei Paesi sviluppati.
Il tavolo sui Piani Nazionali di Adattamento ai Cambiamenti Climatici a metà settimana ha trovato una convergenza sulla revisione progressiva del testo in un clima definito dagli osservatori come collaborativo.
Si è optato per dei compromessi sugli aspetti rimasti in sospeso facilmente affrontabili, mentre su quelli dove era più complicato raggiungere un consenso si è deciso di riprenderli nelle sessioni informali per non rallentare i lavori. Per lo più si è trattato degli aspetti di carattere finanziario dei Piani Nazionali di Adattamento ai Cambiamenti Climatici.
Perché il dibattito sull’adattamento ai cambiamenti climatici è così indietro?
Lo vedremo alla fine della COP30 di Belém ma già dalla prima settimana possiamo dire che il lavoro che si sta facendo è quello di restituire dignità politica al tema dell’adattamento ai cambiamenti climatici, tanto da innescare la competizione per ottenere un risultato politico.
Possiamo anche dirci che è indubbio che l’adattamento climatico è indietro rispetto alla mitigazione. Questo può essere dovuta a una scarsa percezione del rischio da parte di tutte e tutti che in un certo senso è anche normale, per quanto se ne voglia dire alla fine tendiamo a essere fin troppo ottimisti e a non pensare che potremmo essere colpiti da un evento estremo da un momento all’altro.
Nel 1980 Neil D Weinstein pubblicò lo studio “Unrealistic optimism about future life events” in cui tratteggiava gli aspetti essenziali del Bias dell’ottimismo, secondo cui le persone tendono a credere che ci siano più probabilità di vivere esperienze positive piuttosto che negative e a sottovalutare le possibilità di incontrare avversità nella vita.
Questo bias, almeno in Italia, viene poi rafforzato da un’informazione spesso carente da questo punto di vista. Al di là dell’utilizzo di termini come “maltempo” che orientano la percezione comune rispetto a numerosi eventi estremi, nel nostro Paese abbiamo numerosi problemi con il giornalismo: grossi gruppi d’interesse che controllano i media tradizionali, dipendenza dalla pubblicità, precarietà e autocensura delle e dei giornalisti o interferenze della politica.
Ciò si interseca con il fatto che l’adattamento ai cambiamenti climatici non è ancora visto come un’occasione di investimento per le imprese private. Costruire il MOSE a Venezia per fronteggiare l’acqua alta o costruire delle piattaforme eoliche off-shore hanno un ritorno dell’investimento economico molto diverso che si confronta nella tensione tra “costi della crisi climatica” e “profitti della transizione”.
Da una parte l’investimento pubblico è molto più forte perché si vorrebbe tutelare i propri interessi, comunità ed economie dagli effetti dei cambiamenti climatici, dall’altra invece i privati vedono la transizione ecologica come un opportunità di profitto. In un modello capitalistico in cui le casse delle pubbliche amministrazioni sono sempre più in crisi è abbastanza intuibile quale dinamica sta trainando con più forza l’azione per il clima.
Ma qualcosa sta cambiando e devo dire che alla fine il blogpost di Bill Gates dove racconta le sue “tre dure verità sul clima” che vorrebbe dar sapere a tutti i partecipanti della COP30 non è che sia propriamente rivoluzionario.
Il fondatore di Microsoft, oltre ad affermare che il cambiamento climatico non porterà alla fine dell’umanità, ha preso una posizione abbastanza netta: finora l’attenzione è stata rivolta esclusivamente alla riduzione delle emissioni e questo rischia di distogliere risorse da interventi efficaci per il miglioramento della qualità della vita, sopratutto nelle aree in condizione di vulnerabilità, povertà e marginalità.
Bill Gates ritiene che il traguardo di contenere il riscaldamento globale entro 1,5 °C non sarà raggiunto e che la domanda energetica raddoppierà entro il 2050, rendendo la transizione ancora più complessa. Da qui la necessità di ridurre il divario di costo tra tecnologie pulite e fossili mettendo il benessere umano al centro dell’azione per il clima.
Effettivamente si tratta di una posizione si sta consolidando negli ultimi anni anche alla luce di una tendenza abbastanza preoccupante: i flussi della finanza pubblica internazionale per l’adattamento sono in calo (da 28 miliardi del 2022 ai 26 miliardi del 2023), mentre il 58% dei fondi vengono erogati sotto forma di debito che rischia di aggravare le disuguaglianze sociali.
Il report “Foundation funding for climate change adaptation and resilience 2025” della Climateworks Foundation ha stimato che meno del 10% dei finanziamenti climatici globali è destinato all’adattamento e che la maggior parte non arriva direttamente alle comunità colpite. Il segnale positivo è che anche l’azione degli enti filantropici si sta accorgendo della fotografia attuale: dal 2021 al 2024, il finanziamento da parte delle fondazioni per l’adattamento climatico è cresciuto significativamente, passando da circa 400 milioni di dollari a 870 milioni di dollari nel 2024, con un aumento del 120% complessivo.
La giusta transizione
I lavori sul Just Transition Work Programme sono ripresi a partire da una nota informale prodotta a Bonn, focalizzandosi sulle aspettative circa il risultato del programma che aveva rappresentato uno dei principali punti di divergenza, a cui si accompagna la discussione sulla natura stessa delle giuste transizioni.
La divisione sulle aspettative può essere riassunta in modo abbastanza semplice così:
i Paesi in via di sviluppo chiedono la creazione di un meccanismo di attuazione che permetta di coordinarsi e scambiare informazioni, oltre che fornire supporto nell’attuazione;
i Paesi sviluppati mostrano dubbi sulla creazione di un nuovo meccanismo perché lo ritengono un duplicato di strumenti già esistenti.
Durante la prima settimana dei negoziati per il clima di Belém ha acquisito forza il Belém Action Mechanism (BAM), una proposta sostenuta dalle organizzazioni della società civile di creare e istituzionalizzare un meccanismo di giusta transizione internazionale, cooperativo e trasparente, che ruoti intorno al lavoro e ai sindacati.
Il gruppo dei G77 e la Cina stanno supportando indirettamente questa proposta anche se con l’intenzione di indebolire le parti legati all’inclusione e ai diritti. Nonostante ciò l’istituzionalizzazione di un meccanismo di giusta transizione all’interno del sistema dei negoziati per il clima mettendo al centro i lavoratori di tutto il mondo avrebbe un carattere rivoluzionario.
Per come pensato durante questa prima settimana, il Belém Action Mechanism (BAM) diventerebbe un meccanismo formale e permanente delle Nazioni unite con lo scopo di tutelare le comunità dai pericoli della transizione, evitando che il contrasto alla crisi climatica diventi un massacro per i Paesi che si trovano all’estremità delle filiere produttive.
A oggi solamente il 3% della finanza per il clima supporta policy di giusta transizione come la protezione sociale, l’inclusione e la diversificazione economica. Il Belém Action Mechanism (BAM) potrebbe diventare uno strumento multilaterale per coordinare le transizioni locali e nazionali su diversi aspetti come la distribuzione di fondi, il supporto economico o la condivisione di pratiche e informazioni.
Nei tavoli di negoziazione di questa prima settimana sono però emerse delle divisioni di vedute. Paesi come l’Unione europea e la Nuova Zelanda spingono per una formulazione più ambiziosa sulla transizione dai combustibili fossili, mentre altri Paesi preferiscono definire la giusta transizione nel contesto più ampio della sicurezza energetica e dell’accessibilità economica. Oltre a questi sono emersi altri concetti come eradicazione della povertà, misure unilaterali per il commercio e minerali critici.
Global Stocktake
Sul Global Stocktake si sta lavorando su due filoni ben distinti: come attuare i risultati emersi dal primo stocktake che si è tenuto alla COP28 di Dubai nel 2023 e come costruire il secondo ciclo del Global Stocktake che si terrà a COP33 nel 2028.
Entrambi i tavoli di lavoro sono stati creati due anni fa e da allora sono in stallo. Durante la prima settimana gli Stati sono rimasti molto fermi sulle proprie posizioni e, nonostante la presidenza brasiliana stia investendo un enorme impegno politico su questo tema, il tavolo sulle modalità procedurali e logistiche del secondo ciclo del Global Stocktake è quello che vive più difficoltà.
Durante questa prima settimana di negoziati per il clima è emersa infatti la “no tect option” per il secondo ciclo del Global Stocktake che avrebbe l’effetto di congelare il processo evitando di prendere una decisione durante la COP30 di Belém rischiando di compromettere l’intero filone per i prossimi anni.
Loss and Damage
I negoziati per il clima sul Loss and Damage sembrerebbero favoriti dai progressi ottenuti durante le consultazioni tenutesi durante i negoziati intermedi di Bonn a giugno e le delegazioni arrivate in Brasile volevano procedere rapidamente e operativamente sui testi negoziali.
Per quanto riguarda il rapporto annuale congiunto del Comitato Esecutivo del Meccanismo internazionale di Varsavia e della rete di Santiago, è stato dato mandato ai co-facilitatori di redigere una bozza di decisione concisa e mirata, sulla falsariga del documento predisposto nel 2024.
Invece per le consultazioni sulla revisione del meccanismo si è optato per delle discussioni informali con lo scopo di produrre una nota che costituirà il punto di partenza condiviso per il testo negoziale.
Mitigazione ai cambiamenti climatici
Uno dei tavoli più complessi di questi negoziati per il clima di Belém è quello del Mitigation Work Programme che era stato rimandato durante la COP29 di Baku e i negoziati intermedi di Bonn, dove si era riusciti a elaborare una bozza con i titoli dei paragrafi da cui si è provato a ripartire.
Durante la prima settimana di COP30 il tavolo del Mitigation Work Programme è stato scaldato dagli Stati insulari, con il Vanuatu che ha ricordato agli altri Paesi gli effetti della crisi climatica che stiamo vivendo e che è necessario lasciare questi negoziati per il clima con un forte impegno sulla mitigazione. Le prime bozze circolate riconoscono l’importanza dell’obiettivo di 1,5°C ma restano prive di impegni vincolanti.
Finanza per il clima
A Belém sono ripresi i negoziati sull’articolo 2.1 (c) dell’Accordo di Parigi volto a rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso verso basse emissioni e uno sviluppo resiliente alla crisi climatica.
Anche qui si sono registrate delle difficoltà nel trovare una visione comune e alcuni Stati hanno chiesto ai co-facilitatori di preparare una proposta di testo negoziale, mentre per altri sembrava prematura a causa degli scarsi progressi delle ultime tre COP.
Sembrerebbe però che durante questa prima settimana di negoziati per il clima il tavolo sulla finanza sia riuscita a instaurare un dialogo sulle safeguards per attuare l’articolo per poi procedere a una prima bozza con le visioni emerse fino a ora.
Cambiamenti climatici e questione di genere
Durante la prima settimana di COP30 è stata elaborata anche la bozza di un nuovo Gender Action Plan (GAP) condivisa con le Parti per la discussione con l’obiettivo di chiudere il testo entro venerdi.
Il testo prevede l’adozione del nuovo Gender Action Plan (GAP) 2026-2035 e la revisione della sua attuazione, insieme al Lima Work Programme on Gender, entro il 2029.
Il ruolo delle città nell’azione sui cambiamenti climatici
I primi giorni della COP30 di Belém sono stati inoltre dedicati al ruolo delle città nella crisi climatica grazie anche alla presenza di sindaci, governatori e amministratori locali che hanno discusso su come trasformare gli impegni nazionali (gli Ndc “3.0” che i Paesi dovranno presentare entro il 2025) in politiche concrete sul territorio.
Questa rappresentanza delle realtà subnazionali ha consegnato al Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres la dichiarazione del Local Leaders Forum, in cui migliaia di città e regioni si impegnano a collaborare con i Governi per raggiungere gli obiettivi climatici, mobilitare la finanza per il clima in progetti locali e a trasformare la COP in uno spazio concreto e di responsabilità per la transizione giusta.
Durante la COP30 il Network C40, una rete globale di sindaci, e la Global Covenant of Mayors (GCoM) stanno sostenendo quattro richieste principali: 1) riconoscere città e regioni come partner ufficiali dell’attuazione climatica; 2) creare spazi formali nella COP per i governi locali, promuovendo cooperazione multilivello; 3) l’inclusione degli enti subnazionali nel meccanismo di transizione giusta in discussione; 4) potenziare la finanza climatica urbana sopratutto per l’adattamento cogliendo la discussione della roadmap “Baku to Belém”.
Le proposte di un maggiore coinvolgimento degli enti locali sembrerebbero avere un forte supporto della Presidenza di COP30 tant’è che si stanno avviando delle discussioni molto interessanti. D’altronde come ha ben testimoniato Eric Garcetti, ex sindaco di Los Angeles e ambasciatore C40, le città hanno una maggiore capacità di agire rapidamente e direttamente sui bisogni delle persone e di coinvolgerle nei processi decisionali, rendendo l’azione locale per il clima possibile anche quando i Governi nazionali non sono “d’accordo od ostili”.
Le Guide tascabili per negoziatori e alleati alla COP30
Ogni anno in occasione dei negoziati per il clima vengono pubblicati degli interessantissimi report o guide pratiche per cercare di orientare l’andamento dei negoziati.
Si tratta di una delle modalità più comuni con cui le realtà della società civile contribuiscono ad allargare le prospettive di negoziati che altrimenti resterebbero focalizzati sugli interessi dei singoli Stati.
Ecco perché voglio segnalarti tre documenti pubblicati prima di COP30 che possono aiutarci a costruire un idea su come stano andando i negoziati per il clima di Belém.
Il ruolo del parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia a Belém
Il 23 luglio 2025 il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia sugli obblighi degli Stati in materia di cambiamenti climatici ha rappresentato una tappa storica del diritto internazionale in quanto, poco prima di uno dei negoziati per il clima, ha riconosciuto che i cambiamenti climatici sono un “rischio universale esistenziale” causato “inequivocabilmente” dalle attività umane per cui gli Stati hanno l’obbligo legale vincolante di “prevenire e porre rimedio” al “danno climatico”.
Su questo tema la guida “Leveraging the ICJ Climate Ruling at COP30 to Unlock Ambition and Advance Accountability” suggerisce come far si che le indicazioni della Corte internazionale di giustizia abbiano un seguito nella COP30 di Belém.
Oltre a ricordare che il contrasto alla crisi climatica è un obbligo giuridico, i negoziati per il clima dovrebbero riprendere il parere della Corte internazionale di giustizia coordinando i propri testi e le parole utilizzate.
Come affrontare le migrazioni climatiche alla COP30
Tra i documenti pubblicati alla vigilia della COP30 di Belém che ha attirato la mia attenzione vi è “COP30 messages on Climate Change and Human mobility” dove vengono forniti dei messaggi ai negoziatori per integrare i temi della mobilità umana (quindi delle migrazioni climatiche) i tutti i principali tavoli dei negoziati per il clima.
Anche in questo caso viene richiamato il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia per consigliare l’inclusione nei tavoli decisionali di un approccio basato sui diritti umani per garantire la partecipazione effettiva di migranti, sfollati e rifugiati.
Oltre a ciò di evidenzia la necessità di integrare l’obiettivo di ridurre e prevenire gli spostamenti forzati, di tutelare le comunità con background migratorio, di individuare indicatori specifici e di riconoscere il contributo di migranti, rifugiati e comunità della diaspora nelle politiche di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici.
Come accelerare la resilienza climatica globale con metriche robuste
Per la COP30 di Belém l’International Platform on Adaptation Metrics (IPAM) ha redatto il Policy Paper “Accelerating Global Climate Resilience through Robust Adaptation Metrics” con cui si suggerisce le modalità con cui definire ruoli, strumenti e principi guida per misurare i progressi in tema di adattamento ai cambiamenti climatici.
Il lavoro di IPAM riconosce che vi è una frammentazione nelle metriche di adattamento e che non esistono indicatori comuni e interoperabili che permettano un approccio sistemico in grado di aggregare dati tra scale e settori diversi.
Segnali per il futuro dei negoziati per il clima
In questi negoziati per il clima possiamo captare dei segnali che ci permettono di leggere il futuro delle COP. So che è ancora presto ma credo che possiamo dire che la politicizzazione e l’influenza dei lobbisti ai negoziati per il clima sia ormai un dato di fatto che crea numerose problematiche.
Il tutto avviene in un riposizionamento geopolitico che è stato facilitato dalla defezione di player come gli Stati uniti. In questo contesto l’Unione europea mostra le sue difficoltà davanti alla propria frammentazione politica facendo si che la leadership si sposti verso la Cina, il Brasile e il G77.
Infine la crisi della politica americana è anche il segno dei tempi che stiamo vivendo. Sempre più forte emerge la difficoltà di comunicare il cambiamento climatico in modo comprensibile e partecipativo. Contemporaneamente, la forza simbolica delle irruzioni dei popoli indigeni e delle mobilitazioni globali rilancia il tema della democrazia climatica e della partecipazione diretta, segnando un ritorno della società civile come motore politico. Ma vediamo un po meglio questi segnali per il futuro dei negoziati per il clima.
I delegati ai negoziati per il clima e la disinformazione sulla crisi climatica
Forse è stupido da dire ma la democrazia per funzionare ha bisogno del popolo (quello che una volta era il demos) e che questo partecipi all’esercizio del potere (kratos). Nell’azione per il clima significa anche mettere le persone nelle condizioni di scegliere per il proprio futuro e delle comunità in cui vivono avendo a disposizione le informazioni corrette.
Uno dei trend degli ultimi negoziati per il clima sembra però essersi confermato anche nella COP30 di Belém:il network Kick Big Polluters Out ha contato il numero di rappresentati dei padroni dell’energia e ha notato che la percentuale di lobbisti del mondo oil&gas a ogni negoziato per il clima continua a crescere.
In numeri assoluti si tratta di 1600 lobbisti, meno degli altri anni, ma anche a causa delle difficoltà logistiche di questi negoziati (costi alti e carenza di posti letto) l’incremento percentuale sul totale è aumentato. Se però una persona su venticinque può sembrare poco (circa il 3%) a fare la differenza è che i lobbisti non accedono ai negoziati per il clima come osservatori ma con i Pass dei Paesi che li invitano avendo quindi il potere di partecipare direttamente ai negoziati e influenzare il risultato dei tavoli di lavoro.
Partecipare ai processi decisionali vuol dire anche aver il potere di contribuire alle decisioni. Nel caso dei negoziati per il clima, Carbon Brief ha contato circa 56 mila delegati iscritti per partecipare in presenza alla COP30 di Belém divisi tra delegati degli Stati, osservatori, media e staff. Tra questi non c’è nemmeno un delegato del governo degli Stati Uniti.
Se ci si ferma ai soli delegati degli Stati parte dell’UNFCCC il numero è pari a 11.500 delegati, facendo si che la percentuale negoziale di lobbisti nei tavoli della COP30 sale a un bel 14%. Se i lobbisti dei padroni dell’energia fossero uno Stato, questo sarebbe quello con la delegazione più numeroso con potere di partecipare ai negoziati.
Insomma qualcosa vorrà pur dire sul futuro dei negoziati per il clima e il loro potenziale trasformativo. A tal proposito Influence Map ha elaborato una mappa della disinformazione che arriva alla seguente conclusione: la maggior parte delle narrative fuorvianti all’interno del dibattito energetico (64,5%) vengono diffuse dai Ceo, dagli amministratori delegati delle imprese dell’oil&gas.
La cover decision a trazione BRICS
Fin dal primo giorno di questi negoziati per il clima sembrerebbe essersi consolidata la posizione dei G77 insieme alla Cina e al Brasile, che insieme costituiscono oltre l’80% della popolazione mondiale.
Più volte ho letto che la Presidenza brasiliana si sia impegnata per portare avanti delle consultazioni per arrivare a una “cover decision” da adottare a conclusione della COP30 di Belém, una dichiarazione politica collettiva che può avere degli importanti effetti sul futuro dei negoziati per il clima.
Questa cover decision ci restituirà il senso politico di questa COP ma già ci racconta un del mutato assetto geopolitico dei negoziati. Se davvero il potere non ammette vuoti come un fluido, il gruppo delle economie emergenti (quelle che una volta erano chiamai BRICS) guidati da Cina e Brasile stanno riempiendo quel vuoto lasciato dagli Stati uniti davanti a un Unione europea sembra arrancare.
Durante questa prima settimana di negoziati Italian Climate Network ha raccontato che la Ministra brasiliana Marina Silva sta personalmente conducendo il processo verso questa decisione politica che dovrebbe guidare il pianeta verso l’addio al fossile, rimanendo in diretto contatto con il Presidente Lula e il Presidente della COP30 Correa do Lago.
L’idea è quella di far convergere i Paesi su una roadmap con date e scadenze per l’uscita graduale e ordinata dai combustibili fossili entro un decennio, basata sul testo del Global Stocktake del 2023 e in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. La cover decision dovrebbe essere incentrata sul tema della giusta transizione, un tavolo negoziale che a oggi sembra presidiato proprio dalla Cina e i G77.
Quello che sta accadendo alla COP30 di Belém è che i principali difensori della scienza climatica sono le nazioni insulari perché ne va della loro vita e qualcuno sta iniziando a dire sottovoce che “forse” la Cina è il leader climatico che si stava cercando da anni. Non dimentichiamoci che Trump ha demolito il lavoro degli scienziati e dell’IPCC definendo i cambiamenti climatici come la truffa del secolo.
Un banco di prova importante della leadership brasiliana, che nell’avvicinamento a COP30 ha costruito un equilibrio politico delicatissimo con i Paesi del Latino america, sarà la gestione del rapporto con la Colombia che per la primavera 2026 ha lanciato un vertice internazionale proprio sul tema dell’uscita dei combustibili fossili.
L’effetto Trump sull’IPCC e il governatore della California Gavin Newsom
Il ritorno di Donald Trump ha avuto degli effetti devastanti per la democrazia americana ma anche sulla politica climatica internazionale. Proprio per Trump la data di uscita del prossimo rapporto IPCC, arrivato ormai al settimo ciclo di valutazione, sta diventando un tema ultra-politicizzato.
L’effetto Trump è stato causato dal ritiro degli scienziati statunitensi dall’IPCC e il taglio di fondi al panel intergovernativo di cui erano storicamente il primo contributore al budget, senza contare che hanno chiuso il gruppo di supporto tecnico.
L’equilibrio politico si è fatto fragile all’interno della Governance dell’IPCC rendendo tema di dibattito se pubblicare i rapporti prima o dopo il prossimo Global Stocktake che si terra nel 2028. Il problema? Se escono prima lo Stocktake sarà basato sulla scienza per il clima più aggiornata in modo da rendere la valutazione globale più realistica alla crisi climatica che stiamo vivendo, in caso diverso ci si dovrà basare sui rapporti del 2021 che ormai saranno vecchi di sette anni.
Il personaggio speculare a Donald Trump si trova proprio alla COP30 di Belém ed è lo statunitense Gavin Newsom, il governatore della California arrivato in Brasile per dire che gli stati e gli amministratori degli Stati uniti ci sono nonostante la politica del 47° Presidente degli USA.
Secondo i commentatori Gavin Newsom starebbe informalmente testando la posizione sui cambiamenti climatici della sua campagna presidenziale del 2028, tra tre anni potrebbe essere infatti lo sfidante di Donald Trump.
Non so se ti ricordi dove eri mentre Los Angeles bruciava, però Gavin Newsom forse si perché come governatore della California ha dovuto affrontare i numerosi incendi e le siccità dello Stato diventando un grande sostenitore della lotta alla crisi climatica.
La sfida di Newsom e di tutti i democratici statunitensi, e mi viene da dire anche la nostra, è quella di trovare un nuovo linguaggio per spiegare la crisi climatica. Gavin Newsom a Belém ha proprio raccontato di come i propri elettori facciano fatica a capire cosa sono i gradi Celsius o i gas serra.
Anche le parole sulla Cina di Gavin Newsom sono stati interessanti: “Trump non si rende conto di quanto sia felice Xi Jinping del fatto che gli Stati Uniti non si sono presentati alla COP30”.
Le Cupula dos povos, la “contro COP30” e le mobilitazioni di tutto il mondo
“Partecipazione, democrazia, prospettive, futuro”, riutilizzo le stesse parole di Ferdinando Cotugno perchè dovrebbero scaldarci l’anima e accenderci l’immaginazione per desiderare qualcosa di diverso nei negoziati per il clima.
Le immagini dell’irruzione dei rappresentati dei popoli indigeni alla COP30 di Belém ci dovrebbero dire qualcosa, sopratutto quando riescono ad attirare l’attenzione globlae, una risorsa sempre più rara della società nella crisi climatica.
I negoziati per il clima hanno una aurea di sacralità e se vuoi anche di baronaggio, d’altronde parliamo di diplomazia per il clima e non di quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo.
Per questo l’entrata disorganizzata e disordinata dei leader dei popoli amazzonici che erano a una manifestazione al di fuori dei negoziati per il clima sembra aver spezzato la ritualità pagana di questo evento.
Eppure democrazia vuol dire anche accogliere i diversi punti di vista e non reprimere il dissenso. Perché dobbiamo ricordare che nella sede dei negoziati per il clima non può entrare nemmeno la polizia del paese ospitante, la sovranità di quel luogo è dell’ONU e può accedere solo chi ha un accredito ufficiale.
Abbiamo già detto quanto sia importante avere il potere di incidere ai negoziati per il clima e credo sia significativo che solo il 14 per cento dei 2500 attivisti indigeni arrivati a Belém ha ottenuto un accredito per la COP30.
Per questo lo sfondamento dei cancelli e dei metal detector della conferenza da parte degli attivisti dei popoli indigeni ha un carattere eccezionale che ha offerto immagini di una potenza simbolica impossibile da ignorare.
Le ragioni della manifestazione sono da ritrovare nella richiesta dello stop alle esplorazioni e alle trivellazioni petrolifere in Amazzonia, senza contare la presenza delle bandiere palestinesi e la richiesta di escludere Israele dai negoziati per il clima.
L’irruzione nella COP30 di Belém ha anticipato l’inizio della Cúpula dos Povos, il controvertice organizzato alla Universidade Federal do Pará. La richiesta politica dei popoli indigeni è quella di portare avanti la proposta colombiana, ossia quella di trasformare il bacino Amazzonico nella prima zona di non proliferazione al mondo dei combustibili fossili.
Dal 2023, infatti, la Colombia prova a coinvolgere i governi latino americani intorno a questa richiesta di fare della foresta un santuario, non è riuscita a trovare nessuna sponda, a causa del gioco delle rivalità regionali e degli interessi fossili da cui nessuno è escluso. L’ex Ministra colombiana aveva condotto la COP16 sulla biodiversità tenutasi a Cali a fine 2024 con un proseguimento nella sede della FAO di Roma nel 2025.
Ad esempio a movimentare la “Contro-COP30” c’erano i Munduruku, una popolazione indigenza in protesta nei confronti del Brasile più che della COP perché vi sono diversi progetti infrastrutturali nel proprio territorio come il Ferrogrão, la ferrovia di quasi mille chilometri che dovrebbe connettere il Mato Grosso al Parà. L’obiettivo industriale è ridurre i costi di trasporto per le esportazioni agricole, in particolare la soia, il prezzo di questa infrastruttura però lo stanno pagando la foresta e le comunità.
In un momento in cui ci si chiede qual è il futuro dei negoziati per il clima e ci si interroga su quale sia il ruolo della società civile, l’iniziativa dei popoli indigeni ci ricorda che abbiamo potere di cambiare le cose e che questi tipi di azioni possono smuovere le acque in un negoziato ancora tutto aperto.
Anche per questo riempie il cuore di gioia vedere le numerose mobilitazioni, come il Climate Pride di Roma, che si sono svolte contemporaneamente sabato 15 novembre proprio in occasione della COP30 per rilanciare il dibattito su clima, biodiversità e transizione ecologica giusta.
Poi lasciatemelo dire… ma se molliamo noi per primi, chi difenderà il nostro diritto di immaginare il futuro? Per tutto il resto dopo gli ultimi colpi di scena della prima settimana non ci resta che aspettare la fine dei negoziati della COP30 di Belém per trarre un bilancio.
Se vuoi seguire quotidianamente la COP30 ti suggerisco di iscriverti alla newsletter Areale curata da Ferdinando Cotugno e al bollettino di Italian Climate Network. Qui invece continueremo a parlarne con più calma seguendo l’imprevedibilità delle mie giornate. Se mi scrivi nella sezione commenti però cercherò di rispondere a ogni tuo dubbio e mi aiuterai a capire su cosa concentrarmi nella prossima lettera :)
Questa lettera è uno spazio per riflettere insieme sulla crisi climatica per andare oltre all’incomunicabilità con cui viviamo queste sfide. Quindi certamente ti leggo e ho cura di ogni tua interazione: scrivimi, commenta, condividi o lascia un cuoricino. Costruiamo insieme la community di Lettere nella crisi climatica.




